27 giugno – 16 luglio 2017, tutti i giorni dalle 10 alle 20
Silvano Girardello – Chi viene a giocare con me?
Mostra antologica a cura di Luigi Meneghelli e Famiglia Girardello. Biografia ragionata di Gaia Guarienti.
Più di settanta i lavori in esposizione che documentano un iter lungo sei decenni: dalle iniziali prove che risentono ancora di vaghi echi picassiani, alle superfici ferite e incandescenti dei primi anni ‘60, alla contaminazione ironica di stili e tecniche del periodo Pop.
Ma è con il Ratto d’Europa che Girardello, partendo dall’archetipo di Paolo Veronese, inizia la sua rivisitazione e riflessione sulle “Sale del Museo”.
“Un tema può essere variato ad libitum”, scriveva. Ed ecco le immagini della Storia dell’Arte che si fanno fucina per dare vita a una miriade di varianti, combinazioni, alterazioni.
Sente che il loro malessere interiore trasforma gli oggetti più comuni in qualcosa di irreale e fantasmatico.
E’ un artista affascinato dall’altra faccia del mondo: perciò scruta, capovolge, smonta. Adopera la strategia del “quadro nel quadro”, fonde “cultura bassa” e smaliziati reperti “citazionistici”.
E poi gli piace mostrarsi furtivamente in scena: come dice il titolo stesso della mostra: “Chi viene a giocare con me?” è un invito che Girardello rivolge all’osservatore, a perdersi tra Interni, Passeggiate, Cancelli, Quadrivi.
Inaugurazione: martedì 27 giugno ore 18.30.
In contemporanea alla mostra al Palazzo della Gran Guardia, si terrà l‘esposizione nello spazio Accademia Gallery – Accademia di Belle Arti di Verona, dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle 19.
Silvano Girardello un protagonista del ’900 veronese
La notte del 27 giugno 2016 si è spento all’età di 88 anni il noto pittore Silvano Girardello. Se n’è andato, accompagnato da una malattia che l’ha portato lentamente ad isolarsi dal mondo, a perdere i ricordi, a cogliere solo la voce del silenzio.
Procura sempre un indicibile malessere parlare di un amico che se ne va: di un amico che ha sempre avuto acutezza di pensiero e sottile capacità dialettica. Non solo: ma anche una raffinata sapienza didattica, dal momento che Girardello per alcuni anni (dal 1984) ha insegnato pittura all’Accademia G. B. Cignaroli, unita ad una attenta perizia gestionale (una volta diventato direttore).
Nato a Rovigo nel 1928, si diploma al Liceo Artistico di Bologna nel ’46. E si iscrive alla facoltà di Architettura. Ma capisce presto che le sue idee progettuali hanno bisogno di andare al di là dei calcoli, degli equilibri, delle «ragioni pure», per misurarsi con i sogni, i colori, le materie. Alla Biennale di Verona del ’59 presenta due lavori (La Serranda e La Cucina) che lo fanno notare al pubblico e alla critica, ma che, soprattutto, rimangono un po’ come le matrici di tutto il suo lavoro a venire. Le immagini danno la sensazione di muri simbolici, di separazioni, di clausure francescane. Più che allo spazio Girardello sembra interessato alla storia, a ciò che viene dal profondo. E non è un caso che spesso prenda a modello l’opera di artisti famosi del passato, come Paolo Veronese, Renoir, Manet, Goya, Millet. È come se la storia dell’arte diventasse un serbatoio da cui prendere citazioni, calchi, variazioni. Lui diceva: «L’immagine già c’è e, quindi, non mi rimane che riprodurre, trascrivere, duplicare». Era convinto dell’infinibilità delle forme e che non ci potessero essere che congetture e rifacimenti.
Scrivono di lui figure come Carlo Arturo Quintavalle, Licisco Magagnato, Mario De Micheli. E mettono in rilievo quello scarto stilistico che avviene nell’opera di Girardello durante gli anni Sessanta. Egli sente l’irruzione della Pop Art con le sue immagini aggressive, persuasive, che mettono in contatto diretto arte e vita. Perciò crea dei collages fatti di fotocopie, tele cerate, plastiche, in cui le immagini della pubblicità si mescolano con il repertorio iconografico legato alla tradizione.
E non è un caso che nel 1981 sia invitato da Alessandro Mozzambani e dal sottoscritto ad un’ampia rassegna al Palazzo della Gran Guardia, tutta incentrata sulle peculiarità della «Pop Art italiana» affabulante e magica.
Ma, ben presto, l’artista ritorna al tema storico del quadro (anzi del «quadro nel quadro», come se egli volesse osservare due volte la sua opera e, quindi, approfondirla, moltiplicarla).
Accanto, ci sono quelli che lui chiama i Capricci: dipinti ironici in cui faceva convivere stili e soggetti diversi immessi in una storia senza tempo. Negli ultimi anni la sua attenzione sembrava tornata all’infanzia, ai Paesaggi del Polesine, ai suoi amati artisti. Era quasi un’operazione di ricapitolazione, di raccolta, di lavoro repertoriale. Tutte le sue “creature” eleganti o approssimative, levigate allo stremo o abbandonate in grovigli di colore. Tutte lì, sotto gli occhi. Per mostrare a se stesso di non essere forse uno sperimentatore ma un ricercatore inesausto sì. Un pittore che non si ferma mai a definire una cosa, ma che vuole andare al di là delle sue apparenze. Come è stato l’intero tragitto umano e culturale di Silvano trascorso a Verona.
Luigi Meneghelli