«Così cerchiamo di ricostruire le nostre vite devastate dal gioco»
(Articolo di Jacopo Storni tratto dal sito http://www.corriere.it/inchieste/cosi-cerchiamo-ricostruire-nostre-vite-devastate-gioco/3bb3b226-a14c-11e4-8f86-063e3fa7313b.shtml del 22 gennaio 2015)
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Le storie delle tante persone rovinate dal gioco e che tentano la difficile strada del recupero all’interno della comunità Orthos, nella campagne di Siena.
Monteroni D’Arbia (Siena) – Hanno perso tutto: la casa, la macchina, il lavoro, gli affetti. Hanno perso la fiducia dei familiari, hanno perso mogli e mariti, nessuno crede più a quello che dicono. Qualcuno di loro ha tentato il suicidio. E allora si giocano l’ultima carta. Non certo quella del gioco, che li ha ridotti sul lastrico, ma quella della salvezza. Per molti di loro l’asso nella manica si chiama Orthos, la prima ed unica casa d’accoglienza in Italia per dipendenti da gioco d’azzardo. Si trasferiscono qui per tre settimane, qualcuno per molto di più. Mangiano, vivono, lavorano e dormono qui. C’è chi lo chiama l’albergo dei ludopatici, è una comunità residenziale per giocatori d’azzardo, un podere incantevole fuori dal mondo, incastonato tra i vigneti e gli uliveti della campagna senese, nel Comune di Monteroni d’Arbia.
Qui i ludopatici tentano di cambiare vita. Via il computer, incubatore di tentazioni, via il telefonino, dove chiamano spesso i debitori, via i collegamenti col mondo esterno. Si ritorna alla terra, alla vita nei campi, al sapore delle cose semplici. “Tentiamo di riscoprire il piacere della natura, di un libro, della musica e della relazione con l’altro, tutte cose che sono state perdute e che hanno comportato la caduta negli abissi del gioco, che spesso è causato da perdite o mancanze affettive ed è portatore di gravi crisi esistenziali”. Lo psichiatra Riccardo Zerbetto è il direttore di Orthos. Ha ristrutturato di sua iniziativa questi casolari grazie al contributo dell’assessorato al sociale della Regione Toscana. Crede molto nell’unicità di questo progetto: “Il trattamento ambulatoriale dei Sert spesso non è sufficiente perché i giocatori non riescono mai a staccarsi completamente dalle tentazioni materiali del gioco”. Il lavoro nei campi comprende potatura delle piante, taglio della legna, raccolta delle olive e produzione di olio.
A tutto questo viene affiancato un intensivo programma terapeutico: sedute psicologiche di gruppo, incontri personalizzati, tecniche di drammatizzazione delle emozioni negative. E poi disegni di gruppo in cui raffigurare le paure inespresse, meditazione, passeggiate nel bosco e letture collettive. E ancora: il pranzo tutti assieme, i turni in cucina e nelle pulizie. Vite da condividere. Nella comunità non ci sono cuochi e non ci sono colf, gli ospiti autogestiscono la loro permanenza e questo, a detta dei responsabili, è assolutamente terapeutico. “Proviamo a riconsiderare e ricostruire l’esistenza dei nostri ospiti, questa esperienza è l’occasione per intervenire su quei fenomeni compulsivi e ossessivi che interferiscono con la capacità di regolare i propri impulsi e di realizzare un soddisfacente progetto di vita”. Gli ospiti sono seguiti da dodici operatori specializzati tra psicologi, psichiatri e psicoterapeuti. Quando i pazienti arrivano in questo casolare, non hanno più niente da perdere. “Avevo una casa e me la sono giocata, avevo una macchina e me la sono giocata. Mia moglie mi ha messo alla porta”. E allora Andrea, dopo 500mila euro buttati nel vortice dell’azzardo, è arrivato quassù, dove ha incontrato Francesco, 1 milione di debiti con l’ippica, padre di una figlia che neppure conosce: “Non conosco mia figlia, non so quali siano i suoi gusti, quali siano le materie scolastiche che preferisce. Grazie a Orthos ho conosciuto me stesso e anche i miei familiari. Prima ero un fantasma, vivevo soltanto per le corse dei cavalli, non lavoravo, non parlavo con nessuno, non curavo il mio corpo. Adesso finalmente ho una vita sociale”. Storie simili e così diverse. Avvocati e operai, ingegneri e disoccupati.
Tutti possono cadere nella spirale del gioco, chiunque può arrivare a Orthos. Giovani e anziani, uomini e donne, come Angela: “Tutti i week end li trascorrevo alle slot machine. Entravo al casinò all’ora di cena e uscivo alle 5 della mattina successiva. Oppure al bar, la sera e anche la mattina per colazione. Quelle ore davanti alle slot, così piene di colori e false emozioni, erano gli unici momenti della giornata in cui mi sentivo bene. Orthos mi ha permesso di attribuire un valore diverso ai soldi, mi ha insegnato a stare con gli altri, a capire perché sono arrivata a buttare tutti i miei risparmi nel gioco. Mi riempivo la vita di azzardo perché ero vuota in tutto il resto, rifiutavo i sentimenti e su questo ha inciso pesantemente la mia infanzia, quando per due anni di fila sono stata abusata”. Anime alla deriva, stritolate dal gioco, persone che hanno perso qualsiasi etica e razionalità: “Rubavo l’incasso del ristorante a cui lavoravo per andare a giocare alle slot e alle Vlt (Video Lottery Terminal ndr),” racconta Paolo. Gli fa eco Francesco: “Chiedevo prestiti a mia moglie raccontandole che mi servivano per pagare i fornitori della mia azienda. I miei familiari non sapevano che invece mi servivano per giocare. Per nove anni ho fatto una doppia vita”. Nella comunità di Orthos ci si mette a nudo raccontando se stessi, si fanno i conti con il proprio passato, si ride ma soprattutto si piange, ritornano a galla gli scheletri del passato. Si intrecciano storie drammatiche e traumi sotterrati. Dice Lorenzo, uno dei giocatori passato da questa comunità: “Forse dovevo proprio toccare il fondo… quasi morire… per poter rinascere”.