Ammalarsi di gioco: «Ero come drogata ma uscirne si può»
(Articolo di Monica Viviani tratto dal sito http://gazzettadimantova.gelocal.it/cronaca/2014/05/04/news/ammalarsi-di-gioco-ero-come-drogata-ma-uscirne-si-puo-1.9163938 del 04 maggio 2014)
Il racconto di una cinquantenne guarita dalla ludopatia «Pensavo solo alle slot, erano diventate il mio mondo»
MANTOVA. «Quando entri in quel mondo non ti interessa più altro, il tuo pensiero è sempre lì, a quando ci tornerai. Non ti importa dei debiti, di perdere il lavoro, sei disposto a rinunciare a tutto, anche alla tua famiglia». Fino a qualche mese fa “lì” era una sala slot per questa signora di 54 anni che abita nell’hinterland mantovano e ha accettato di raccontarci il suo viaggio con ritorno da una malattia ancora forse troppo poco conosciuta e temuta: il gioco d’azzardo patologico. Un incubo durato un paio d’anni e iniziato per impedire che il suo compagno giocasse cifre eccessive ai videopoker: «Nel seguirlo in quei posti, pian piano ho iniziato anche io – racconta – La mia vita è stata una continua lotta contro il vizio: mio padre che si era rovinato con le carte, mia madre giocava al lotto, facevo scenate al mio compagno…e poi sono diventata come loro». Oggi che ha uno sguardo lucido su quanto si è lasciata alle spalle sa bene che non è solo questo. C’è anche un «pessimo matrimonio con un uomo violento», il non sentirsi «amata da quando sei nata», il ritrovarsi ancora una volta sola a combattere contro un destino che sembrava tragicamente segnato: «E’ allora che butti il ferro a fondo, chiudi tutto il mondo fuori per paura di essere giudicata e il tuo mondo diventa la slot-machine». Una droga che ti porta a inventare scuse per i ritardi sul lavoro, a tagliare i ponti con i figli ormai grandi «perché provi vergogna» e «hai solo voglia di entrare in un qualsiasi posto dove ci sono delle slot». E dire che «quando ci entravo mi veniva da commiserare gli altri che giocavano» ma intanto «non vedevo l’ora di cambiare 20 euro che poi diventavano 40, 80, 100 perché non riesci più a fermarti anche se sai che poi dovrai umiliarti con mille bugie per chiedere un prestito», perché «è come un demone che hai dentro e ti impedisce di pensare». E’ stata la necessità di denaro per un intervento medico che ad un certo punto le ha fatto dire «ho bisogno di aiuto», le ha fatto trovare il coraggio di bussare alla porta del consorzio Ethica che aveva appena avviato un progetto sperimentale sul Gioco d’azzardo promosso dalla Regione. «L’ascolto e la comprensione senza giudizio mi hanno aiutata a capire che era arrivato il momento di volermi un po’ bene». Era il marzo 2013 quando ha iniziato il suo percorso terapeutico e «nonostante – ammette oggi – continuassi a giocare, mi rendevo sempre più conto che non c’era motivo per cui mi dovessi suicidare a quel modo. Perché alla fine era una forma di suicidio». Prima la scelta faticosa di separarsi dal compagno, poi quella di coinvolgere i figli in questo doloroso percorso di rinascita e un passo dietro l’altro ha iniziato a 50 anni a imparare a volersi bene.
Oggi sono tre mesi che non gioca più, ma come per tutte le dipendenze sa «che non posso dire di esserne uscita per sempre, d’altronde i problemi che mi hanno portata in quel tunnel sto ancora cercando di elaborarli», ma «sono quasi certa che questa cosa eviterò di farla perché ho davanti a me lo specchio di quello che ero diventata, del male che mi stavo facendo». Oggi «il mio percorso con Ethica è finito, ma io so che tutte le volte che ho bisogno posso bussare alla loro porta e loro mi ascolteranno». Questo la fa sentire meno sola anche nei momenti in cui i tormenti tornano in superficie e con loro la tentazione.
Oggi che ha deciso di raccontare la sua storia «per tutti quelli che sono ridotti a questa schiavitù» per dire loro: «Il modo per uscirne c’è».