Scrittori e alcolismo
(Articolo tratto dal sito http://italian.ruvr.ru/2014_02_23/Scrittori-e-alcolismo-9755/ del 23 febbraio 2014)
Ai vizi, quali l’ubriachezza, sono predisposti non solo i semplici mortali, ma anche gli scrittori. Inoltre l’alcolismo diventa anche componente dell’attività artistica. Uno dei più eccezionali e dotati ubriaconi era Edgar Poe. Non andava d’accordo con il mondo reale e preferiva cercare la verità nel vino.
Le libagioni abbondanti facevano nascere immagini cupe e bizzarre che poi si rispecchiavano sulla carta. Poe amava il vino, si ubriacava abbastanza velocemente e ogni tanto era affetto da dipsomania. La svolta tragica accadde dopo la morte della seconda moglie Virginia. Sullo sfondo dell’ubriachezza incallita lo scrittore iniziò a perdere la ragione, combatteva con i fantasmi, ogni tanto finiva al manicomio. Alla fine Edgar Poe fu trovato semivivo e derubato in una fossato, venne portato all’ospedale dove poco dopo morì.
L’autore di “Il buon soldato Sc’vèik” Jaroslav Hašek era un allegro sbornione. L’avventore dei bar praghesi buttava giù alcuni bicchierini di vodka, accompagnati da una conversazione piacevole il tutto ricoperto dalla birra che tanto amava. Non poteva passare davanti qualche trattoria senza trattenersi: una volta durante una notte visitò 28 bar e in ogni bettola bevve almeno tre birre. A volte Hašek finiva nella stazione di polizia: o faceva la pipì nelle vicinanze o cercava di rompere una cancellata e una volta tentava di saltare dal Ponte Carlo, dopodiché fu portato al manicomio.
Il poeta cantautore italiano Fabrizio di Andre ha parlato così sull’abitudine di bere: “E’ una reazione frequente tra i drogati quella di compiacersi del fatto di drogarsi. Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigatissima”. In genere agli scrittori e poeti italiani piace molto il vino, ma nonostante questa passione non sono stati macchiati dall’alcolismo.
Ci sono molti proverbi italiani che rispecchiano il rapporto con il vino: “Chi non beve in compagnia, o è un ladro o una spia”, “Del vino il primo, del caffè il secondo, della cioccolata in fondo”, “Dove entra il bere, esce il parere”.
Si sa benissimo dell’ubriachezza degli scrittori russi: Gorkij, Esenin, Bunin. Ivan Bunin così spiegava la necessità di bere: “Ah, questo eterno bisogno russo della festa! Come ci attira alla costante ubriachezza, alla dipsomania, come sono noiosi la quotidianità e il lavoro metodico!”
Nel Novecento in Russia c’erano due geni dell’alcolismo: Venedikt Erofeev e Serghej Dovlatov. Entrambi gli scrittori prendevano sul serio la loro ubriachezza, essa era parte integrante della loro vita. Dovlatov odiava le sue crisi di alcolismo, ma la vodka aveva un dominio fatale su di lui: “non bevo da anni, ma la (vodka) ricordo, maledetta, da mattina a sera”.
Il poeta Maksim Lavrentiev ha dubbi, se l’alcol aiuta a scrivere: Prendiamo Erofeev. Se non fosse stato un ubriacone inveterato, non ci sarebbe nemmeno il suo capolavoro “Mosca – Petushki” (in italiano “Mosca sulla vodka”). Ma l’ubriachezza l’ho distrutta. Il problema non è nelle crisi di alcolismo, ma nell’esperienza. Se lo scrittore vuole ottenerla in questo modo, sono fatti suoi. Ma si può trovare l’ispirazione da altre fonti, più trasparenti e fini della bottiglia”.
L’abuso di alcol ha portato nella tomba sia Erofeev che Dovlatov e molti altri.
E’ difficile scoprire le cause dell’ubriachezza negli scrittori. Una è chiara che “l’armonizzatore alcolico” ha un gran difetto: la sua azione è breve e molto dannosa.