Malattia del gioco, una spirale senza fine
(Articolo di Manuela Trevisani tratta dal sito www.larena.it del 29 novembre 2013)
Le vittime: «Si perde tutto e si entra in un tunnel di ansia e depressione. Nelle sale ci sono anche gli strozzini: sembrano clienti, ma sono lì per studiarti»
Tra i rischi della dipendenza dal gioco c’è quello di finire nelle mani degli strozzini
Bianco o nero. I giocatori d’azzardo non conoscono sfumature. O si tengono alla larga da sale giochi, videolottery e gratta e vinci, o ci cascano dentro fino al collo, perché la ludopatia non si può controllare. Parola di chi l’ha vissuta per anni sulla propria pelle, come una compagna di disavventure, nascosta dietro la porta e pronta a fare capolino nei momenti difficili. Un tema caldo, che con la crisi sembra essere esploso in tutta la sua drammaticità: proprio per questo motivo, le associazioni di consumatori scaligere in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento politiche antidroga e la Fondazione Tovini hanno organizzato l’incontro pubblico «Facciamo i conti! L’uso responsabile del denaro». Il convegno si terrà domani alle 9.30 nella Sala convegni della Banca popolare di Verona in via San Cosimo, 10. Ma cosa significa essere dipendenti dal gioco? Siamo andati a chiederlo ai diretti interessati. Giorgio ha 60 anni e vive solo. «Gioco da oltre vent’anni, in modo non continuativo: in passato scommettevo sui cavalli, ora ci sono le slot machine», racconta Giorgio. «È una cosa schifosa, nel senso più tragico del termine: per far cassa, lo Stato fa leva sulle debolezze della gente e il 90 per cento degli incassi arrivano proprio da chi è dipendente». Ma cosa scatta nelle mente di un giocatore? «Si comincia perché si sente il desiderio di fuggire dalla realtà e di rifugiarsi in una dimensione altra rispetto al quotidiano», svela Giorgio. «Poi, però, si perde tutto e allora ci si mangia lo stipendio e si chiedono prestiti a banche, finanziarie, parenti e amici, per giocare e rifarsi delle perdite: si entra in una spirale di ansia, angoscia, depressione – in quest’ordine – che porta a un desiderio ancora maggiore di fuggire dalla realtà. Paradossalmente, non vedi l’ora di tornare a giocare». A Giorgio abbiamo chiesto due consigli: uno per chi è a un passo dal precipizio della ludopatia e uno per chi vorrebbe uscirne. «A chi sta per caderci non do consigli, perché non ha consapevolezza del problema e non ascolterebbe: gli auguro di perdere sei-sette volte di fila, così la voglia passa», conclude Giorgio. «A chi c’è dentro, consiglio di azzerare tutto. Ciò che è stato è stato. Bisogna tirare una linea, al di là della quale c’è il futuro, e ripensare alla propria vita in termini di progettualità». I «cravattari», gli strozzini, spesso sono parte integrante del meccanismo. Li si immagina come figure distanti, che operano nell’ombra, ma non è così. Lo racconta Romano, 48 anni, in cura al Sert 1 del Dipartimento Dipendenze dell’Ulss 20. «Quando si entra in una sala giochi, ci sono tante persone, tra cui anche i “papponi”, ma tu non sai chi sono: sembrano giocatori come te, stanno alle macchinette, ti osservano e ti studiano anche per più giorni», spiega Romano. «Poi, fatalità, nel momento in cui perdi sono lì e ti allungano cinquanta euro, quasi come fosse un favore, senza ovviamente parlare di interessi. Quando perdi, iniziano i problemi: se non hai denaro a disposizione, pretendono che consegni loro un documento e poi le chiavi dell’auto. Giorno dopo giorno, gli interessi aumentano e iniziano le minacce». Ma quanto si può arrivare a dilapidare alle macchinette? «Se giochi poco con 50 euro puoi andare avanti per mezz’ora, ma se ci vai pesante allora 50 euro li finisci in un minuto. In poche ore sono arrivato a perdere mille euro, ma c’è anche chi fa fuori sette-ottomila euro al giorno». Oggi Romano non gioca da 120 giorni. «All’inizio ho provato da solo, ma c’erano momenti in cui sentivo forti crisi d’astinenza, così mi sono rivolto al Sert», conclude. «Bisogna cambiare giri, evitare di frequentare gli stessi posti e le stesse persone. All’inizio non è facile, ci si vergogna, ma si deve avere coraggio: se si fa un percorso, lo si deve portare a termine, senza ricadute».