Teatro Romano di Verona
26, 27, 28, 29 luglio 2017, ore 21.15
Giovedì 27 luglio alle 17.30 incontro con il cast in Biblioteca Civica
Ingresso libero
L’isola trovata
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
di William Shakespeare
regia di Massimiliano Bruno
con Violante Placido, Giorgio Pasotti, Paolo Ruffini e Stefano Fresi
cast Claudia Tosoni, Federica De Benedittis, Tiziano Scrocca, Antonio Gargiulo, Maurizio Lops, Dario Tacconelli, Rosario Petix, Giuseppe Ragone, Annalisa Aglioti e Alessandra Ferrara.
Sono ben sedici le precedenti edizioni del Sogno di una notte di mezza estate al Teatro Romano. La nuova versione è firmata da Massimiliano Bruno, apprezzato protagonista della scena teatrale quanto di quella cinematografica. Suo il film Beata ignoranza con Alessandro Gassmann e Marco Giallini uscito nel febbraio 2017, divertente commedia che racconta le vicende di due nemici/amici, insegnanti di liceo, che si sfidano su una problematica attualissima, se sia legittima o no la dipendenza dai social network.
Applausi e altri video
«Quello che voglio da questo Sogno – sottolinea Massimiliano Bruno – è tirare fuori la dimensione inconscia che Shakespeare suggeriva neanche troppo velatamente. Puntellare con l’acciaio la dimensione razionale imprigionata nelle regole e nei doveri bigotti e rendere più libera possibile quella onirica, anarchica e grottesca. E così il nostro bosco sarà foresta, patria randagia di zingari circensi e di ambivalenti creature giocherellone, Puck diventerà un violinista che non sa suonare, Bottom un pagliaccio senza palcoscenico, Oberon un antesignano cripto-gay e Titania una ammaestratrice di bestie selvagge. L’intenzione è essere affettivi senza essere affettuosi, ferire per suscitare una reazione, divertire per far riflettere, vivere nella verità del sogno tralasciando la ragione asettica e conformista. Un Sogno di una notte di mezza estate che diventa apolide e senza linguaggio codificato, semplici suoni e immagini che sono – conclude il regista – meravigliose memorie senza mai essere ricordi».
Galleria fotografica della prima
Foto e video della conferenza stampa in Sala Arazzi
MASSIMILIANO BRUNO (1970) – Regista, sceneggiatore e attore. Esordisce nel cinema come regista nel 2011 con Nessuno mi può giudicare. Nel 2012 scrive, dirige e interpreta il film Viva l’Italia. È autore di molte sceneggiature di successo tra cui Notte prima degli esami, Ex, Maschi contro femmine, Questa notte è ancora nostra, Tutti contro tutti e Buongiorno papà. Il suo secondo film da regista, Viva l’Italia, ottiene due candidature al David di Donatello. Per il teatro stabilisce una prolifica collaborazione con Paola Cortellesi per la quale scrive tre opere: Cose che capitano, Ancora un attimo che interpreta al suo fianco, e Gli ultimi saranno ultimi, vincitore di numerosi riconoscimenti tra cui il premio “ETI – Gli olimpici del teatro” e il prestigioso “Premio della critica 2006”. Per quanto riguarda la televisione, scrive testi per I Cesaroni, Quelli che il calcio e Non ho l’età e conduce varie trasmissioni televisive tra cui Saturday Night Live per La7.
VIOLANTE PLACIDO (1976) – Il suo esordio nel cinema è nel 1993 con Quattro bravi ragazzi. Dopo tre anni si fa notare in Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1996) accanto a Stefano Accorsi. Il primo ruolo di rilievo lo interpreta nel film L’anima gemella (2002). È poi l’interprete, tra gli altri film, di Ora o mai più (2003), Che ne sarà di noi (2004), Il giorno + bello (2005), La cena per farli conoscere (2007) e Lezioni di cioccolato (2007). Nello stesso periodo interpreta alcune produzioni televisive: da Guerra e pace (2007) a Pinocchio (2009) dove è la fata dai capelli turchini ed è la protagonista (nel ruolo di Moana Pozzi) della miniserie TV di Sky Cinema Moana. Recita inoltre al fianco di George Clooney (The American, 2010) e di Nicholas Cage (Ghost Rider – Spirito di vendetta, 2012). Col nome di Viola è anche un’apprezzata cantante.
GIORGIO PASOTTI (1973) – Nel 1998 interpreta i film I piccoli maestri ed Ecco fatto, opera prima di Gabriele Muccino. Approda poi in televisione dove conduce il programma Cinematic su MTV Italia. Nel 2000 debutta in teatro come protagonista, insieme a Stefania Rocca, di Le poligraphe di Robert Lepage. La popolarità gli arriva con la serie televisiva Distretto di polizia dove interpreta l’ispettore Paolo Libero nella terza e quarta stagione. Nel 2010 torna al cinema con Baciami ancora di Gabriele Muccino. Tra le sue numerose interpretazioni, nel 2012 è Giuseppe Garibaldi nella miniserie Anita Garibaldi su RaiUno e nel 2013 è Stefano nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nel 2014 è tra i protagonisti di Sapore di te di Carlo Vanzina. Sempre per Vanzina interpreta in Un matrimonio da favola dove è un omosessuale che cerca di nascondere la propria sessualità agli amici.
PAOLO RUFFINI (1978) – Dopo avere interpretato, nel 1997, un compagno di scuola del protagonista di Ovosodo di Paolo Virzì, diventa un personaggio celebre della tv con la sua militanza a MTV dal 2002 al 2005 e collaborando con Marco Giusti per il programma Stracult. Nel 2005 torna al cinema interpretando cinepanettoni e “cinecocomeri” come Natale a Miami, Natale a New York, Natale a Rio e Un’estate ai Caraibi. Tra gli altri film interpretati, La prima cosa bella, Maschi contro femmine, Femmine contro maschi e C’è chi dice no. Nel 2013 debutta nella regia con la commedia Fuga di cervelli da lui anche interpretata. Dal 2003 è molto attivo a teatro: tra le sue interpretazioni un recente one man show, il Paolo Ruffini Show.
STEFANO FRESI (1974) – Attore particolarmente poliedrico, è anche compositore, cantante e musicista. Con la sua performance nello spettacolo I tre moschettieri di Attilio Corsini, attira l’attenzione di Michele Placido che gli chiede d’interpretare il Secco nel suo film drammatico Romanzo criminale (2005). Nel 2008 è diretto da Anna Negri in Riprendimi, nel 2012 da Massimiliano Bruno in Viva l’Italia, e nel 2014 interpreta con grande successo il ruolo di Alberto Petrelli in Smetto quando voglio grazie. Tra le sue ultime interpretazioni Ogni maledetto Natale, Noi e la Giulia e La prima volta (di mia figlia) .
Limitatamente ai 4 posti disponibili il Comune di Verona offre la gratuità per spettatori con disabilità + accompagnatori.
TEATRO. Tanti applausi per il regista e il suo cast d’eccezione: Fresi, Pasotti, Placido e Ruffini
Il Sogno di Shakespeare
seduttivo e psichedelico Bruno colpisce nel segno
Francesca Saglimbeni
Teatro Romano sold out per questa prima nazionale Atmosfere circensi, folk e un po’ surreali danno alla commedia un’impronta onirica, leggera e moderna
Giocoso e farsesco, incantevole e affabulatorio, ma anche grintoso e seduttivo. Ha tutti gli ingredienti per traghettarci in una dimensione onirica, a tratti psichedelica, ma con un piede nella quotidianità, l’innovativo «Sogno di una notte di mezza estate» a firma di Massimiliano Bruno, affermato nome della scena teatrale e cinematografica italiana, che ieri sera ha debuttato in un Teatro Romano da sold out, con un eclettico cast di artisti, capitanati da un istrionico Stefano Fresi, un raffinato Giorgio Pasotti, una superba e ammaliante Violante Placido, e il sempre ironico, ma calibrato, Paolo Ruffini.Un Sogno «folk» e moderno, ben congeniato, capace di osare, e creare sorpresa in guisa di uno spettacolo di prestigio, senza nulla togliere all’incantata ambientazione dell’opera del Bardo. Qui meno bucolica e più selvatica. Nell’adattamento di Bruno e di Francesco Bellomo, il tradizionale bosco di folletti e divinità mitologiche assume infatti sembianza di una foresta animata da creature ambivalenti e burlone. Dalle scanzonate fatine che sembrano uscite da un trattato di stregoneria, ai loro “sovrani” Titania e Oberon, che nell’estrosa interpretazione della Placido (decisamente a suo agio nel contesto teatrale), e di Pasotti (padrone di ogni verso e azione), danno più l’idea di una regina dark, lei (in quel suo costume da domatrice di belve, in sella a un insolito risciò circense), e di un re del varietà, lui, il quale, agghindato di tutto punto con pantaloni e frac da showman, si cala in un brillante, un po’ zingaresco e al contempo delicato, Oberon criptogay. Vulcanico Fresi, nel ruolo di Bottom, seguito da una carovana di commedianti allo sbaraglio, impegnati a imbastire una rocambolesca pièce da mettere in scena durante le nozze di Teseo e Ippolita. All’allegra compagnia, tra cui spicca la «performanza» di Maurizio Lops, il ruolo di mediare tra sogno e realtà, teatro e metateatro, in un gioco di specchi e scatole cinesi che, da una parte svelano l’ingovernabilità delle vicende umane, dall’altra, la missione di verità del «teatro nel teatro». Abili giocolieri di scoppiettanti gag e mimi, questo Bottom (cinto da una grottesca mise scozzese che ne esalta il dna comico) e il clownesco manipolo di attori al suo seguito, hanno catturato l’ intero pubblico. Tra atmosfere circensi, di reminiscenza felliniana, e ruspanti dialoghi in italico prevolgare stile Armata Brancaleone, che ribadiscono l’impronta folkloristica dell’allestimento; e ancora, fantasiose coreografie e notturni al chiaro di luna, sotto cui si consumano incantesimi ed equivoci amorosi (talentuose Claudia Tosoni e Federica De Benedittis nei ruoli di Elena ed Ermia), si aggira anche un inedito Puck, spiritello infingardo, un po’ slow, un po’ romantico, egregiamente cucito addosso a un altrettanto apprezzato Ruffini.Uno spettacolo fresco, leggero, ma impegnato e ricercato – anche nelle scene di Carlo di Marino e musiche di Roberto Procaccini, alternate a ritmi dance e suoni allucinogeni-, che sa intrattenere con gusto, addicendosi a ogni genere di sognatore.
ESTATE TEATRALE. Questa sera debutto e prima nazionale per la commedia del Bardo declinata in maniera «guascona»
Torna il Sogno al Teatro Romano
«Questo Shakespeare sarà folk»
Francesca Saglimbeni
Il regista Bruno ha previsto «frizzanti variazioni sul tema e goliardia» Non ci sarà il classico bosco, ma una foresta popolata di zingari circensi
Pronti a sognare con Titania e Oberon, Bottom e Puck, e la fitta foresta di fate, amanti e spiritelli circensi del diciassettesimo «Sogno di una notte di mezza estate» proposto dall’Estate Teatrale Veronese? L’appuntamento – attesissimo, stando alle 1.500 prevendite già segnate al botteghino del Teatro Romano – è per questa sera alle 21.15, nella magica mezza luna che sporge sull’ansa sinistra dell’Adige, dove il 69° Festival Shakespeariano presenterà una delle più celebri commedie del Bardo, nel nuovo allestimento, in prima nazionale, del regista Massimiliano Bruno, alle prese con un cast d’eccezione che vede schierati in prima linea Stefano Fresi, Giorgio Pasotti, Violante Placido e Paolo Ruffini, tutti noti volti del grande e piccolo schermo, con differenti background drammaturgici.Fedele al testo, questo sì, perché la parola di Shakespeare resta una roccia impermeabile a qualsiasi stravolgimento, ma con note decisamente fantasiose, intonate alle poliedriche esperienze artistiche degli interpreti e alle molteplici possibilità di gioco cui si prestano i ruoli dell’intramontabile fiaba, «questo “Sogno” avrà una nervatura folk», ha rivelato il regista, alla presentazione dello spettacolo prodotto da L’isola ritrovata di Francesco Bellomo, tenutasi ieri mattina a Palazzo Barbieri in presenza dell’assessore alla Cultura Francesca Briani. Lo stesso Shakespeare «intese infatti ricavarne uno spettacolo per il popolo, recitato dal popolo. Ho quindi riportato il ruolo dei comici a quella cialtroneria un po’ guascona segnalata anche nel testo, divertendomi a ricamare sui canoni shakespeariani con frizzanti variazioni sul tema». E così, al posto di un bosco popolato da figure mitologiche classicheggianti, «ho immaginato una foresta, adibita a patria randagia di zingari circensi e ambivalenti creature giocherellone».«Spirito circense e spirito teatrale sono del resto molto simili», ha commentato Pasotti (sulla scena Oberon e Teseo), sottolineando l’entusiasmo per questa direzione, «impegnativa, ma caratterizzata da una fatica che premia». Gli fa eco il compositore Fresi, orgoglioso di fare parte di un cast riunitosi in breve tempo, eppure già così affiatato. «La familiarità», ha detto, «è un tratto di questa compagnia e questa pièce, che vorremmo arrivasse al pubblico». Del suo personaggio, Bottom, dice: «Sarà un pagliaccio senza palcoscenico. Un ruolo che mi ha consentito di giocare con il linguaggio, brillante e leggero, tradotto dal nostro regista». Un italiota di matrice britannica, contaminato da dialettismi nostrani tra il toscano e il romanaccio, che conferiscono a dialoghi e scene un’impronta ancora più ruspante e ritmi cinematografici.«Il mio Puck», ha spiegato il comico livornese Ruffini, improvvisandosi conduttore della conferenza «è un folletto un po’ infingardo, che veste il ruolo di spettatore, del deus ex machina del sogno. Che provoca le situazioni e sta a guardare cosa succede. Però è anche lo spirito buono di Shakespeare».Nel doppio ruolo di Ippolita e Titania, qui in versione addestratrice di bestie, Violante Placido. «Un’esperienza unica» questo suo primo Sogno, «dove ciascuno ha potuto esprimere la propria creatività, spingendo anche un po’ sull’acceleratore».Un cast divertente, a sua volta divertito, che in pochi minuti ci ha già fatto pregustare il clima onirico e al contempo vivace di queste sere di mezza estate (fino al 29 luglio).«In 16 edizioni di questa opera – ha ricordato Giampaolo Savorelli – abbiamo visto sul palco versioni di ogni genere, anche in ango-indiano. Con questo allestimento assisteremo a un originale carnevale della fantasia».
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Sogno di una notte di mezza estate
Sogno di una notte di mezza estate | |
---|---|
Commedia in cinque atti | |
Autore | William Shakespeare |
Titolo originale | A Midsummer Night’s Dream |
Lingua originale | Inglese |
Genere | Commedia |
Fonti letterarie | Le Metamorfosi di Ovidio; L’asino d’oro di Apuleio |
Composto nel | 1595 circa |
Prima assoluta | 1596 |
Personaggi | |
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Riduzioni cinematografiche | Vedi l’apposita sezione |
Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream) è una commedia di William Shakespeare. Scritta intorno al 1595, è la più famosa tra le opere di argomento comico del drammaturgo.
Trama
Ad Atene fervono i preparativi del matrimonio tra Teseo ed Ippolita, regina delle Amazzoni. Al cospetto di Teseo si presenta Egeo, padre di Ermia, con i due pretendenti della figlia per chiedere il suo giudizio: Ermia rifiuta di sposare Demetrio, perché innamorata di Lisandro che ricambia i suoi sentimenti. Sebbene i due ragazzi siano pari per ricchezze, lignaggio e reputazione, Egeo preferisce Demetrio e le suppliche della figlia non lo toccano. Se Ermia rifiuta Demetrio deve essere condannata a morte o essere rinchiusa in un convento. Anche Teseo è dello stesso avviso: la giovane deve rispettare l’autorità paterna. Finita l’udienza i due innamorati decidono di scappare dalla città la sera stessa, attraversando il bosco, per potersi sposare una volta lontani. Ermia si confida con l’amica Elena. Elena era l’amante di Demetrio, prima che lui si infatuasse di Ermia. Quindi gli rivela il piano degli innamorati, convinta che a quel punto Demetrio l’avrebbe allietata con un ringraziamento.
Così Demetrio si lancia al loro inseguimento, seguito a sua volta da Elena. Il bosco però è un regno di fate pieno di mistero e insidie e qui si intrecceranno le storie di altri personaggi. C’è un litigio fra Titania e Oberon, re e regina degli elfi. Si stanno contendendo il figlio di un’amica umana di Titania per farne un paggio. Il bimbo rimane però a Titania. Oberon allora ingaggia il folletto Puck, chiamato anche Hobgoblin, o Robin Goodfellow, affinché lo aiuti: egli desidera un servitore di sua moglie, la regina Titania, per sé, e chiede al folletto di procurarsi del succo di viola del pensiero e spremerlo sugli occhi della moglie addormentata, cosicché la regina si invaghisca del primo essere, persona o animale, che vedrà al risveglio e dimenticandosi del resto, gli ceda il suo servitore senza protestare. Gli chiede di versare il medesimo succo anche negli occhi di Demetrio per aiutare Elena dopo aver assistito ad un dialogo tra i due. Per errore Puck spreme il succo sugli occhi di Lisandro che al risveglio vede Elena (che vaga nel bosco dopo essere stata congedata in malo modo da Demetrio) e se ne innamora perdutamente, con grande disappunto di Ermia.
Nel bosco ci sono anche alcuni artigiani della città, che provano uno spettacolo teatrale con cui allietare le nozze di Teseo e Ippolita. Uno di loro, Bottom, ha indosso come costume una testa d’asino. Puck ha anche il tempo di fargli uno scherzo: Bottom, non può più levarsi il costume di dosso e anzi la sua testa è diventata quella di un asino. Lui non capisce cosa succede e anche i suoi compagni fuggono via terrorizzati. Sarà proprio Bottom la prima persona di cui si innamorerà Titania al suo risveglio, a causa dell’effetto della viola del pensiero. A questo punto Titania incontra Oberon, che realizza il suo scopo, per poi scioglierla dall’incantesimo. Puck quindi mette a posto le cose, compresa la testa del povero Bottom.
Oberon inoltre, si accorge dell’errore di Puck, e gli ordina di dare il succo a Demetrio. Così ora sia Lisandro che Demetrio vogliono sposare Elena. Elena però crede che la stiano prendendo in giro, perché prima nessuno la voleva, e quando Ermia mostra il suo disappunto nel vedere Lisandro che corteggia l’amica, le due cominciano a litigare. Alla fine Oberon ordina a Puck di risistemare tutto tra gli innamorati una volta per tutte. Oberon fa scendere una nebbia fatata sul bosco tale che i quattro ragazzi si perdono di nuovo e si addormentano. Puck può così sciogliere l’incantesimo fatto a Lisandro, che torna ad amare Ermia. Sicché tutto è accomodato: Oberon e Titania sono riconciliati, e i quattro giovani sono due coppie.
Questi vengono trovati addormentati al limitare del bosco il giorno dopo da Ippolita e Teseo il quale dopo aver ascoltato i loro racconti decide che anche i quattro giovani si sposino quel giorno insieme a lui ed Ippolita. Anche Egeo, sopraggiunto dopo aver cercato la figlia tutta la notte, può solo acconsentire, dato che ormai Demetrio ama Elena. La notizia degli imminenti tre matrimoni manda in agitazione il villaggio, compresi i lavoratori ateniesi che stavano provando la commedia nel bosco, i quali però sono senza il personaggio principale della loro commedia: Piramo, che doveva essere interpretato da Bottom, che loro avevano abbandonato nel bosco con la testa d’asino: il morale è a terra. Fortunatamente il protagonista entra in scena proprio in questo momento di sconforto di ritorno dal bosco, e incita i compagni a prepararsi per lo spettacolo.
Al palazzo, Teseo, nonostante gli avvertimenti del cerimoniere, sceglie proprio il loro spettacolo (Piramo e Tisbe), in quanto sostiene che un qualcosa offerto con così buona volontà non possa essere rifiutato. Inoltre ha la sensazione che la rappresentazione sarà divertente a dispetto della trama e sicuramente interessante. A questo punto parte lo spettacolo nello spettacolo: gli artigiani mettono in scena una goffa versione della tragedia, generando una comica atmosfera (“sento il volto della mia Tisbe…” “vedo il suono della tua voce..”), nella quale è compreso anche un personaggio nel ruolo del leone (causa dell’equivoco che porta i due innamorati alla morte), uno nel chiaro di luna e un altro nella parte del muro (con relativo squarcio attraverso cui i due amanti si parlano). Degna di nota la performance dell’artigiano Francis Flute, che interpreta (in maniera del tutto singolare) il ruolo di Tisbe. La tragedia diventa una farsa in cui tutti ridono fino alle lacrime. Gli artigiani vengono anche ricompensati da Teseo, divertito dallo spettacolo.
Origini
Non si sa con certezza quando la commedia fu scritta o messa in scena per la prima volta, ma si presume tra il 1594 e il 1596. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che potrebbe essere stata scritta nel febbraio del 1596 per una rappresentazione in occasione del matrimonio tra Sir Thomas Berkeley ed Elizabeth Carey.
Non è certo quale genere abbia ispirato la trama, anche se alcuni spunti sono rintracciabili nella letteratura classica; ad esempio, la storia di Piramo e Tisbe è raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, mentre la trasformazione della testa di Nick Bottom in quella di un asino è un riferimento a L’asino d’oro di Apuleio – due opere letterarie che Shakespeare può aver studiato a scuola.
Oltre a ciò, più o meno nello stesso periodo nel quale questa commedia fu composta, Shakespeare stava scrivendo Romeo e Giulietta, ed è possibile rilevare nella trama che ha per protagonisti Piramo e Tisbe una rielaborazione in chiave comica della tragedia.
Rappresentazioni e adattamenti
Il Sogno a teatro
Dopo il Rinascimento, la commedia non fu mai rappresentata nella versione integrale fino alla metà del XIX secolo; nel 1692 ci fu però un adattamento musicale da parte di Henry Purcell con il titolo di The Fairy Queen, una versione ridotta in cui Bottom era il personaggio principale.
Il Sogno nell’epoca Vittoriana
Nel 1840, Madame Vestris rappresentò la commedia integrale a Covent Garden, inserendovi intermezzi musicali e balletti; lei stessa interpretò il ruolo di Oberon e, per settant’anni, i personaggi di Oberon e Puck furono interpretati da donne. Dopo il successo ottenuto dall’adattamento di Vestris, il teatro del XIX secolo continuò a considerare il Sogno di una notte di mezza estate un’occasione per uno spettacolo imponente recitato da un centinaio di attori. Le ambientazioni sceniche raffiguranti il palazzo e la foresta furono curate nei minimi particolari, e le fate presero le sembianze di danzatrici con le ali di finissima tela di garza.
Nel 1841 Federico Guglielmo II di Prussia chiamò a Berlino il compositore tedesco Felix Mendelssohn, per ambiziosi progetti di allestimenti di tragedie greche e drammi shakespeariani con musiche di scena scritte appositamente per essi. Mendelssohn compose quelle per il Sogno di una notte di mezza estate, nelle quali riutilizzò l’omonima ouverture (“Ein Sommernachtstraum”, op. 21) scritta nel 1826.
Granville-Barker, Max Reinhardt ed altri
All’inizio del XX secolo ci fu una reazione a questa fastosa rappresentazione. Harley Granville-Barker, un direttore artistico d’avanguardia, nel 1914 introdusse una moderna messa in scena della commedia, eliminando il cast numeroso e la musica di Mendelssohn, sostituita dalla musica popolare dell’età elisabettiana; invece di sfarzosi apparati scenici collocò una semplice scenografia fatta di tele decorate a disegni; usò un’immagine delle fate del tutto originale, viste come creature dalla forma di insetti robot, simili agli idoli cambogiani. Semplicità ed enfasi sull’estro della direzione artistica hanno continuato a prevalere anche nelle successive rappresentazioni teatrali.
Max Reinhardt mise in scena il Sogno di una notte di mezza estate per tredici volte tra il 1905 ed il 1934, introducendo una scenografia girevole. Fuggito dalla Germania, nel settembre del 1934 inventò un adattamento scenico all’aperto, ancora più spettacolare, all’Hollywood Bowl. La copertura fu tolta e sostituita da una foresta piantata su tonnellate di immondizia portata per l’occasione e fu costruita un’impalcatura che il corteo nuziale, sceso dalle colline al palcoscenico con le torce, attraversava nell’intervallo tra il quarto ed il quinto atto. Il cast di attori includeva John Lodge, William Farnum, Sterling Holloway, la diciottenne Olivia de Havilland e Mickey Rooney, con musiche di Mendelssohn orchestrate da Erich Wolfgang Korngold. (Il giovane compositore austriaco proseguì la sua carriera a Hollywood). Basandosi sul successo di questa rappresentazione, la Warner Brothers e Reinhardt firmarono un contratto per farne un film, il primo tratto da un’opera di Shakespeare dopo La bisbetica domata, interpretato da Douglas Fairbanks e Mary Pickford nel 1929; Rooney (Puck) e De Havilland (Ermia) erano gli unici attori provenienti dal cast teatrale.
Brook e oltre
Un’altra realizzazione che fece epoca fu quella di Peter Brook nel 1971. Brook abbandonò tutte le forme di rappresentazione tradizionali, ambientando la commedia in una scatola bianca vuota in cui fate maschili eseguivano degli esercizi circensi, come il trapezio; introdusse anche l’idea, diventata poi comune, di far sostenere un doppio ruolo: Teseo/Oberon e Ippolita/Titania, come a voler dire che il mondo delle fate rispecchia il mondo degli uomini. In seguito all’idea di Brook, i direttori artistici si sono presi la libertà di prendere spunto dalla propria fantasia e decidere autonomamente che significato attribuire alla commedia e come trasferirlo sul palcoscenico. In particolare, è diventato frequente l’elemento legato alla sessualità, poiché molti registi associano il palazzo ad un simbolo di costrizione e di repressione, mentre il bosco può indicare la sessualità selvaggia e incontrollabile, che è sia liberatoria che terribile.
Trasposizioni cinematografiche
La commedia di Shakespeare ha ispirato diversi film, di cui i più conosciuti sono i seguenti. Uno dei primi importanti film sul Sogno fu quello di Max Reinhardt e William Dieterle, che vinse due Academy Awards. Nel 1968 Peter Hall interpretò le atmosfere psichedeliche degli anni sessanta con una pellicola basata sulla famosa produzione di Hall Royal Shakespeare Company, d’avanguardia per l’epoca. Judi Dench recitava nella parte di Titania.
Un altro film basato su una produzione della Royal Shakespeare Company fu quello del 1996 diretto da Adrian Noble. Nel 1999 Michael Hoffman riunisce un cast hollywoodiano: Kevin Kline nel ruolo di Bottom, Michelle Pfeiffer nel ruolo di Titania, Sophie Marceau nel ruolo di Ippolita, e Calista Flockhart in quello di Elena, Rupert Everett in quello di Oberon.
Questo adattamento trasferisce il luogo in cui si svolge la commedia in Toscana alla fine del XIX secolo.
-Un particolare adattamento cinematografico dell’opera si vede nel film Argentino del regista “Eugenio Zanetti” del 2014 intitolato “AMAPOLA”, la trama traspone gli inquilini di un hotel nell’interpretare l’opera di Shakespeare ma nello stesso tempo tutto l’hotel è protagonista di intrecci amorosi e magie. Si tratta più precisamente di una interpretazione nel film in stile “Reality” dove la realtà intreccia la magia, il musical e il teatro in un mix elegante e ricercato ispirandosi completamente all’opera “Sogno di una notte di mezza estate”. Il film vede attori di un certo spessore internazionale è interpretato da Camilla Belle, Francois Arnauld e Geraldine Chaplin e prodotto da “Fox International”
Altri adattamenti
Il numero 36 della serie di fumetti italiana Dylan Dog si intitolava Incubo di una notte di mezza estate, palesemente ispirato all’opera di Shakespeare.
Una delle storie a fumetti di Corto Maltese, ideato e disegnato da Hugo Pratt, s’intitola “Sogno di un mattino di mezzo inverno” ed è chiaramente ispirata al Sognodi Shakespeare. Infatti, anche se ambientata durante la prima guerra mondiale, vi appaiono i personaggi di Oberon, Titania e Puck, risvegliati assieme al mago Merlino e alla Fata Morgana per difendere il suolo britannico dall’invasione tedesca e quindi dai personaggi mitologici sassoni (tra i quali Valkirie e Troll).
Un’ouverture ed intermezzi musicali furono composti da Mendelssohn nel 1826 ed usati in molte versioni teatrali durante il XIX secolo.
Fu adattata ad opera musicale con musiche di Benjamin Britten e libretto di Britten e Peter Pears, rappresentata per la prima volta a Aldeburgh il primo giugno, 1960, per la regia di John Copley.
Divenne un comic book (giornalino a fumetti nel formato classico americano) per opera di Neil Gaiman per la serie The Sandman. La versione vinse diversi premi e si distinse per essere l’unica opera a fumetti che ottenne un World Fantasy Award.
Il recente libro Magic Street di Orson Scott Card si rifà all’opera, vista come una continuazione della commedia, ritenendo che la trama, in realtà, avesse preso spunto da vere interazioni con i personaggi delle fiabe.
La serie animata Gargoyles recupera alcuni elementi della commedia di Shakespeare. Oberon appare come sovrano della “terza razza” dopo aver deposto sua madre, la Regina Mab. Essa comprende tutte le creature magiche (comprese quelle delle mitologie di tutto il mondo). La razza comprende anche Titania, Puck e le strane sorelle (le tre streghe di Macbeth) e popola l’isola di Avalon.
Nel manga Il grande sogno di Maya di Suzue Miuchi, nei volumi 21 e 22 la protagonista Maya recita nel ruolo di Puck in una rappresentazione delle compagnie Tsukikage ed Unicorno in un parco all’aperto. Si tratta di una rappresentazione dell’intera opera.
La storia Zio Paperone e la polvere di stelle, pubblicata su Topolino nel 1988, è liberamente ispirata a Sogno di una notte di mezza estate[1].
Il musical Puck della compagnia teatrale giapponese Takarazuka Revue è liberamente ispirato a Sogno di una notte di mezza estate.
Collegamenti esterni
- Audiolibro https://www.liberliber.it/online/autori/autori-s/william-shakespeare/sogno-di-una-notte-di-mezza-estate-audiolibro/
- Sogno di una notte di mezza estate – The Liverpool Shakespeare Festival 2008, theliverpoolshakespearefestival.co.uk.
- [1] – testo inglese – MIT html version. No advertising.
- A Midsommer Nights Dreame – testo inglese – HTML version of this title.
- Midsummer Night’s Dream – testo inglese – plain vanilla text from Project Gutenberg
William Shakespeare
SOGNO
D’UNA NOTTE
D’ESTATE
PERSONAGGI
TESEO duca d’Atene
Egeopadre di Ermia
LISANDRO DEMETRIO: innamorati di Ermia
FILOSTRATO cerimoniere di Teseo
ZEPPA carpentiere
BIETTA stipettaio
ROCCHELLA tessitore
FLAUTO aggiusta-mantici
CANNELLO calderaio
SPARUTO sarto
IPPOLITA regina delle Amazzoni fidanzata di Teseo
ERMIA figlia di Egeo e innamorata di Lisandro
ELENA innamorata di Demetrio
OBERONE re degli elfi e delle fate
TITANIA regina degli elfi e delle fate
IL FOLLETTO BERTINO BUONTEMPONE
RAGNATELOBRUSCOLOFIOR-DI-PISELLOGRAN-DI-SENAPE: elfi
Altri spiriti agli ordini d’Oberone e di Titania. Cortigiani e Valletti di scorta a Teseo ed Ippolita
Scena: Atene e un bosco nelle sue vicinanze
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA – Il Palazzo di Teseo in Atene
(Entrano TESEO ed IPPOLITAcon FILOSTRATOCortigiani e Valletti)
TESEO: La nostra ora nuzialeo vaga Ippolitaveloce appressa: quattro giorni ancorae spuntare vedrem la nuova luna; ma lenta a declinar sembra l’antica!
Ella mi fa stentarequal erede cui suocerao matrignalungamente per servitù le rendite assottigli.
IPPOLITA: Presto cadran quattro dì nella notte; svaniran presto quattro notti di sogni quindi la lunapari ad arco argenteoappena teso in cielsarà notturna spettatrice di nostre cerimonie.
TESEO: Tu Filostratocorri ad incitare i giovani d’Atene all’esultanzasveglia il brioso spirito di gioiae l’umor nero ai funerali invia:
non vo’ quel viso smorto alle mie pompe.
(Esce Filostrato)
T’ho vagheggiataIppolitacoll’armie recandoti offeset’ho conquisa; diverso metro vo’ per gli sponsalivo’ i trionfile pompe ed i tripudi.
(Entrano EGEOERMIALISANDRO e DEMETRIO)
EGEO: Sia felice Teseol’insigne duca!
TESEO: Grazievirtuoso Egeo. Che t’e accaduto?
EGEO: Pieno di cruccio vengoad accusare una mia creaturala mia figlia Ermia. Vien quaDemetrio. Signor ducaquesti ebbe il mio consenso per sposarla.
Vien quaLisandro. Magnanimo ducaquesti ha magato il cuore di mia figlia.
SìtuLisandrotu rime d’amore hai dedicato alla mia creaturae scambiato con lei pegni d’amore:
sotto il balconeal lume della lunale hai cantato smaniosi madrigali con accento smanioso; e insinuato senza parer ti sei nelle sue grazieoffrendole smanigli di capelligingillianellibaie e frascheriemazzolinibazzecoledolciumi (messi di gran potere su fanciulle tenere). Tu carpito hai con astuzia il cuore di mia figliatramutando in protervia ostinata l’obbedienza ch’ella mi deve. O magnanimo ducase nel vostro cospetto ora mia figlia non consente a sposarsi con Demetriol’antico privilegio ateniese invocoper dispor di lei ch’è mia:
cioè per darla a questo degno giovineo alla morte; in virtù di nostra legge che precisa risponde a questo caso.
TESEO: Ermiache dici? bada tufanciulla:
dovrebbe il padre esser per te qual nume; l’autore egli è della tua leggiadria; sìtu per lui non sei che cerea forma ch’egli ha plasmata effigieche ad arbitrio egli può preservare oppur distruggere.
Giovine ragguardevole è Demetrio.
EGEA: Anche Lisandro.
TESEO: Per se stesso certo main questo casoa lui mancando il voto del padre tuogli è superiore l’altro.
ERMIA: Vedesse il padre mio cogli occhi miei!
TESEO: Meglio per te guardar col senno suo.
ERMIA: Supplico Vostra Grazia di scusarmi.
Non so qual forza qui mi rende arditané se possa disdire al mio pudore ch’io le mie idee dichiari in tal presenza:
ma invoco Vostra Grazia per sapere il peggio che m’attendedato il caso ch’io rifiuti Demetrio per marito.
TESEO: Pena di morteoppure di perpetua segregazione dal consorzio umano.
Esamina il tuo cuoreErmia gentilei tuoi freschi anni considerascruta il sangue tuoper giudicar se tu (non consentendo alla paterna scelta) possa soffrir le bende monacalirestar captiva in un tetro conventopassar la vita quale suora sterilemodulando inni con sommessa voce all’infeconda e frigida Febea.
Ben tre volte beate le fanciulle chevinto il sangueseguono il sentiero di castità; ma in terra più felice è la rosa onde stillasi il profumodi quella che su intatto spino langueed m pace virginea cresce e muore.
ERMIA: Voglio viver cosìducae morireanziché abbandonare il privilegio della mia purità nella balìa di qualcuno al cui giogo mal gradito l’anima mia ricusa di piegarsi.
TESEO: Rifletti in calmae per la luna nuova (nel dì che salderà fra me e ‘l mio amore un vincolo di fede imperitura) sii preparata a sostener la mortequal ribelle ai voleri di tuo padre; o a sposare colui ch’egli prescelseo a votarti sull’ara di Diana per sempre a vita austera e senza amore.
DEMETRIO: AcquetatiErmia cara; e tuLisandrorecedi dalle tue grame pretese dinanzi al mio diritto ineccepibile.
LISANDRO: Demetriotu l’amor del padre godi; lascia a me quello d’Ermia: sposa Egeo.
EGEO: Insolente! di certoegli m’è caro; e tutto quanto è mioper questo affetto diverrà suo. Ermia appartiene a meed ogni mio diritto su di essa dichiaro qui d’intestare a Demetrio.
LISANDRO: Son quanto lui di buona stirpeduca; quanto lui facoltoso; l’amor mio supera il suo; le mie fortune in tutto sono pari alle sue (se non maggiori); e (questo vanto più d’ogni altro vale) io sono amato dalla vaga Ermia:
dunque perché non sosterrei ‘l mio dritto?
Demetriolo sostengo in faccia suatempo fa vagheggiava Elenafiglia di Nestoreed il cuor ne conquideva; sì che ora lei (gentil fanciulla) spasimadi tenerezzadi passione spasimaper questo indegno ed incostante amico.
TESEO: Io pur n’ebbi sentore (lo confesso) e pensai di parlarne con Demetrio; mafrastornato da privati affarinon vi posi più mente. EgeosuvviasuvviaDemetrio; voi verrete mecodebbo darvi istruzioni riservate.
E tuvaga fanciullafa’ che s’armi di fortezza il cuor tuosì che conformi gli affetti ai desideri di tuo padre; altrimenti la legge ateniese (che in niun modo possiamo attenuare) ti dannerà alla morteoppure al chiostro.
VieniIppolita mia; che pensiamore?
EgeoDemetrioteneteci dietro:
debbo assegnarvi uffici per la nostra festa nuzialee conferir con voi di cosa che da presso vi concerne.
EGEO: Vi seguiamo con zelo e con piacere.
(Escono tutti fuorché Lisandro ed Ermia)
LISANDRO: Perchéamor miosì pallido è il tuo viso?
che mai d’un tratto ne avvizzi le rose?
ERMIA: Forse la scarsità di quella pioggia che potrei loro provvederlasciando a dirotto scrosciare gli occhi miei.
LISANDRO: Ahimè! per quanto ho udito da leggendee per quanto ho imparato dalle storiemai vero amore s’ebbe agevol corso; ma ora differenza di natali….
ERMIA: Ahi! troppo insigne per vil parentado.
LISANDRO: Ora disparità rispetto agli anni….
ERMIA: Ohimè! troppo d’età per star con giovine.
LISANDRO: Or paterna ingerenza nella scelta….
ERMIA: Guaisceglierein amorcogli occhi altrui!
LISANDRO: E allorquando la scelta fu adeguatao guerrao morteo infermità si posero sempre ad assedio dell’amore: ed esso fu momentaneo come suonolabile come ombracorto come sogno; rapido come saetta che rivela d’impetoin fosca nottee cielo e terrae in men che non si dica: “guarda!”è divorato dalle fauci del buio: così pronta a dileguare è cosa risplendente.
ERMIA: Se mai dunque i fedeli innamorati soffronoè per decreto del destino:
impariamo perciò a portar pazienza in quest’avversità che ci è toccataed è croce usualepertinente all’amor come i sognied i sospiried i pensieri e i desiderie i pianti:
corteo dell’infelice tenerezza.
LISANDRO: Ragioni bene; e alloraErminiada’ ascolto:
ho una zia molto riccauna matrona vedova e senza proleche mi tiene caro al pari d’un figlio. La sua casa è lontana da Atene sette leghe:
posso sposarti làErmia gentile; e là perseguitati non saremo dalla severa legge ateniese.
Se mi vuoi beneallordomani notte fuggi via dalla casa di tuo padre; e nella selva a una lega da Atene (dove un mattino incontrai te con Elenaper celebrare insiem Calendimaggio) io starò ad aspettarti.
ERMIA: Buon Lisandroper l’arco più tenace di Cupido; per la migliore delle sue saette che ha d’òr la punta; per le semplicette colombe nidie; per quanto gli amori fa prosperare e tiene avvinti i cuori; per la fiamma chequando Enea malfido fe’ vela da Cartaginearse Dido; per tutti i giuri dagli uomini infranti (più che a lor ne facesser mai le amanti) in quello stesso luogo che m’hai detto d’incontrarti domani ti prometto.
LISANDRO: Mantieni la parolaamore. Ecco Elena.
(Entra ELENA)
ERMIA: SaluteElena bella! dove vai?
ELENA: Bella mi dici? non ridirlo mai.
Per Demetrio (ohbeata!) sei tu bella.
E’ l’occhio tuo come polare stellacaro è l’accento del tuo labbro al cuore come canto d’allodola al pastorefra il grano verde e i fior di biancospino.
Ohcontagiosi rendesse il destino i vezzi al par de’ morbi! rapireiErmia leggiadrai tuoi: via non andrei se non t’avessi già prima carpito l’incanto della voce coll’uditolo sguardo collo sguardoe coll’accento della favella il soave concento.
Se avessi il mondotolto solamente Demetriodarei tutto il rimanentepur di potermi in te trasfigurare.
Insegnami il tuo modo di guardare:
ed insegnamidehcon che malìa tieni il cuor di Demetrio in tua balìa!
ERMIA: Gli fo il cipiglioed egli m’ama sempre.
Ohacquistasse il mio riso tali tempre!
ERMIA: Lo maledicoed ei mi rende amore.
Potesse il mio pregar toccargli il cuore!
ERMIA: Più lo detestoe più tien dietro a me.
Più io l’adoroe più detesta me.
ERMIA: Il suo delirio non è colpa mia.
Colpa è di tua beltàche vorrei mia!
ERMIA: Coraggio: a lui più non dovrò apparire:
Lisandro ed io vogliam di qui fuggire.
Un paradiso Atene mi pareva quand’io Lisandro ancor non conosceva.
Ohma il mio amore ha incanto singolare che in un inferno un ciel poté cangiare!
LISANDRO: Vi sveleremo quanto abbiam deciso:
domani notteallor che Diana il viso d’argento in specchio d’acque a mirar torni e i fil d’erba con fluide perle adorni (tempo da fuga per gl’innamorati)contiamo uscir d’Atene inosservati.
ERMIA: Nel boscoove su tenui primavere noi due sovente solemmo giacerea confidarci ogni intimo desìoc’incontreremo il mio Lisandro ed io; quivi da Atene stornerem la facciadi stranie genti e nuovi amici in traccia.
Dolce compagna de’ miei giochiaddio; prega pel bene di Lisandro e mio; e a te Demetrio renda la fortuna!
BadaLisandro: la vista digiuna terrem del cibo che la fa beata fin domani nel cuor della nottata.
LISANDRO: Sì cara.
(Esce Ermia)
Elenaaddio: il vostro amore possa Demetrio ricambiar di cuore!
(Esce Lisandro)
ELENA: Ohquanto una è d’un’altra più felice!
In Atene anche me bella ognun dice.
Ma che mi val? Demetrio non vi crede:
non vuol vedere quel che ogni altro vede.
S’infatua a torto d’Ermia per lo sguardocom’io per le sue doti a torto m’ardo.
A cosa bassa e vile può l’Amore dare di bella e nobile il valore.
In lui non vedon gli occhima l’istinto:
ond’esso colla benda vien dipinto.
Ne in sé pur l’ombra di prudenza alloga:
alato e cieco va con fatua foga.
E di chiamarlo un pargolo v’è l’usoperché in sua scelta spesso vien deluso.
Se poi vispo ragazzo per trastullo ingannaognor tradisce Amor fanciullo.
In grandine di giuri a me il suo cuore dedicava Demetrio; maal calore degli occhi d’Ermiaegli da me si sciolse e dei giuri lo scroscio si dissolse.
Gli svelerò la fuga dell’amata:
l’inseguirà nel bosco egli in nottata; e se grazie m’avrò per dargli intesami costeranno una soverchia spesa; ma spero d’alleviare l’umor tetro nel vederlo andar làe tornare addietro.
(Esce)
SCENA SECONDA – La casa di Zeppa in Atene
(Entrano ZEPPABIETTAROCCHELLAFLAUTOCANNELLO e SPARUTO)
ZEPPA: E’ tutta qui la nostra compagnia?
ROCCHELLA: Ti converrebbe chiamar tutti “in generale”un per unosecondo la polizza.
ZEPPA: Ecco la lista di quantiin tutta Ateneson reputati capaci di recitare il nostro intermezzo davanti al duca e alla duchessala sera del loro sposalizio.
ROCCHELLA: PrimaZeppa miodicci di che tratta la commedia; eppoi leggi i nomi degli attori: fa’ le cose in regola.
ZEPPA: Benone! La nostra commedia sarebbe dunque “La tristissima storia e l’atroce morte di Piramo e di Tisbi”.
ROCCHELLA: Bel lavorov’assicuroe divertente. OraZeppa miofa’ la chiama degli attori come stan sul foglio. Compariin fila!
ZEPPA: Rispondetevia via che vi chiamo. Cola Rocchellatessitore.
ROCCHELLA: Pronto. Dimmi che parte mi toccae tira avanti.
ZEPPA: TuColasei segnato per Piramo.
ROCCHELLA: E chi è Piramo? un amoroso o un tiranno?
ZEPPA: Un amoroso che s’ammazza intrepidamente per amore.
ROCCHELLA: Ci vorrà qualche lagrima per recitar bene questa parte: se mi ci metto l’uditorio badi agli occhi: voglio scatenare un uraganocondolermiun bel po’. Sentiamo il restoperò la mia vocazione è il tiranno. Sarei speciale per fare l'”Ercule” o una parte dove ci fosse da levar la pelle al gattida far scoppiar tutti.
“Urto di massiscosse e sconquassi:
infrangerassi muda e serrame.
Co’ suoi cavagli ‘Fibbo’ abbarbaglitrami e dismagli le sorti grame”.
Questa sì ch’è roba sublime! E ora finisci di dare le parti. Questa è roba da “Ercule”da tiranno: un amoroso dev’essere più “condolente”.
ZEPPA: Cecco Flautoaggiusta-mantici.
FLAUTO: PresentePiero Zeppa.
ZEPPA: Tu devi occuparti di Tisbi.
FLAUTO: E chi è Tisbi? un cavaliere errante?
ZEPPA: E’ la dama che Piramo deve amare.
FLAUTO: Noperdincinon mi dare una parte di donna: sto mettendo barba.
ZEPPA: Non importa: reciterai mascheratoe potrai far la voce piccina a piacer tuo.
ROCCHELLA: Se mi posso coprir la faccialasciami recitare anche la parte di Tisbi: farò una voce mostruosamente finecosìcosì: “AhPiramocaro amanteecco la tua cara Tisbila tua cara dama”.
ZEPPA: Notu devi fare da Piramoe tuFlautoda Tisbi.
ROCCHELLA: Va benetira via.
ZEPPA: Berto Sparutosarto.
SPARUTO: PresentePiero Zeppa.
ZEPPA: Berto Sparutotu farai da madre di Tisbi. Maso Cannellocalderaio.
CANNELLO: PresentePiero Zeppa.
ZEPPA: Tuda padre di Piramo; io da padre di Tisbi; Biettastipettaiotu da leone; ed eccospero messa su la commedia.
BIETTA: E’ scritta la parte del leone? e l’hai con te? ti prego di darmelase maiperché ci metto molto a imparare.
ZEPPA: La puoi improvvisareperché si tratta solo di ruggire.
ROCCHELLA: Lasciami recitare anche la parte del leone; ruggirò da consolare il cuore di chi mi sente; ruggirò da far dire al duca:
“AncoraAncora!”.
ZEPPA: Se tu ruggissi troppo fieramentela duchessa e le dame si spaventerebbero al punto di strillare: e tanto basterebbe perché fossimo tutti mandati alle forche.
TUTTI: C’impiccherebbero tuttiquanti siamo figli di mamma.
ROCCHELLA: Vi concedoamiciche le damese le facessimo spiritar dalla pauranon avrebbero più discernimento che per mandarci alle forche: ma io “aggraverò” la mia voce così da ruggire pianino come una colomba di latte; da ruggire come un rosignolo.
ZEPPA: Tu non puoi fare che da Piramo. Piramocapisciè un uomo simpatico; bello così da non vederne l’uguale in tutt’un giorno d’estate; un uomo ammodogarbato: insomma una parte che ti calza a pennello.
ROCCHELLA: Va beneresta inteso. E che barba converrà che mi metta?
ZEPPA: Che barba? quella che ti pare.
ROCCHELLA: Posso disimpegnarmi con una barba paglierinacon una barba tanécon una barba scarlatta di granaoppure con una barba color testone francesecioè color d’oro buono.
ZEPPA: Ci son testoni francesi senza un pelo; perciò rischi di recitare sbarbato. Compariecco le vostre parti; non mi resta che supplicarviincaricarvi e chiedervi d’impararle per domani sera; e di venirmi a ritrovare nel parco ducaleun miglio fuor di portaallo spuntar della luna; faremo le prove laggiù; perchése ci radunassimo in cittàavremmo un codazzo di curiosie i nostri stratagemmi si li saprebbero subito. Nel frattempo farò una lista del bisognevole per la nostra rappresentazione. Non mancatevi prego.
ROCCHELLA: Verremo a ritrovarti; e laggiù potremo provare più “sconciamente” e con maggiore audacia. Mettetevi d’impegnomirate alla perfezione: addio.
ZEPPA: Ci raduneremo alla quercia del duca.
ROCCHELLA: Basta: a chi manca sia guasto l’arco.
(Escono)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA – Bosco presso Atene
(Entranoda parti opposteuna FATA e il FOLLETTO)
FATA: Spiritoolà! dimmi un po’ dove vai?
FOLLETTO: Su monti e vallatefra i pruni e le frondesu parchi e steccateper fiammeper ondevago ognorpiù che la sfera della lunaa vol leggiera; per servir la reginettacolla guazzafra l’erbettai suoi cerchi d’orme irroro.
Scortan leiin assise d’orodell’auricola i fiorellini; le lor chiazze son rubinisono efelidi odoratecari doni delle fate.
Le stille di rugiada ho da cercarele orecchie delle auricole a imperlare.
FATA: Addiosguaiato spiritovo via:
viene cogli elfi la regina mia.
FOLLETTO: Stanotte qui gran festa avrà il Sovrano; badi Titania di restar lontano.
Oberone dall’ira è quasi pazzoperché leicome paggioha un bel ragazzo che a un principe dell’India fu rapitoed è il suo più soave favorito.
Questi il geloso re vorrebbe averefargli batter le selve qual scudiere.
Ella a forza trattiene ii giovinettol’inghirlanda di fiorie ogni diletto ripone in lui che fa il suo cor beato.
Ed or non più nel bosconé sul pratoor non più presso chiare fontanellené al lume brillantato delle stelleincontransi que’ due senz’aspre liti; onde i lor elfitutti impauritiin cupole di ghiande lesti vanno a rannicchiarsied ivi ascosi stanno.
FATA: O io travedo in te forma ed aspettoo sei l’astuto e maligno folletto che chiamano Bertino Buontempone.
Non sei tu forse chi desta apprensione tra le fanciulle del villaggioaffanna a volte nella molail latte spanna dalla massaia ansante rimestare fa la zangola invan; né fermentare lascia la birra; e a notte i peregrini sviaper ridere poi di quei meschini?
Se un ti chiama “Bertinfolletto caro”tu stesso il suo lavor gli metti in paroe provvedi sia sempre fortunato.
Dimmisei lui?
FOLLETTO: Hai proprio indovinato; io sono quel nottambulo burlone.
Faccio il giullare pel mio re Oberone; e ride luise stallon ben nutrito di fave ingannoimitando il nitrito della puledra. Entro il boccal m’acquattodi mela cotta in guisaa voltee scatto in bocca alla comarequando bevee lei la birra rovesciarsi deve sulla giogaia vizza. Assai tremende storie narrandosavia zia mi prende a volte per un trespolo: di sottoeccole sfuggolei casca di bottoe “birba” strilla fra colpi di tosse; tengonsi i fianchiprorompendo in grosse risateallorae gongolan gli astantie starnutanoe giuran tutti quantiche non mai più bell’ora hanno passata.
Ohèlargo: arriva il mio sovranofata!
FATA: Ed ecco pure la sovrana mia.
Or voglia il cielo ch’egli vada via!
(Entranoda parti opposteOBERONE e TITANIAl’uno e l’altra col proprio Seguito)
OBERONE: Male incontrata al lume della lunafiera Titania.
TITANIA: Il geloso Oberone!
Balzate viafatine; di costui ho ripudiato letto e compagnia.
OBERONE: Fermaimpudente: non son io tuo sire?
TITANIA: Allora esser dovrei la dama tua:
e invece so appuntino come e quando fuggisti dal paese delle fateper passar giorni interi nella forma di Coridonea modular le avene e a verseggiar d’amore per la tenera Fillide. Come mai sei di ritorno dalle remote balze indiane? Ohcertosol perché la tua Amazzone spavaldal’amica tua guerriera e coturnatacon Teseo si fa sposa; e al loro talamo largire vuoi felicità e fortuna.
OBERONE: Come osi tu (vergognatiTitania) alludere così al favor d’Ippolita verso di mequando sai che conosco l’amore tuo per Teseo? Non tu fosti a condur lui pel notturno barlume lungi dalla rapita Perigune?
Non l’inducesti tu a romper fede ad Egle bellaad Arianna. ad Antiope?
TITANIA: Queste son tutte falsità ispirate da gelosia: ché non maidal principio della bella stagioneci adunammo in poggio o valloncelloin bosco o pratopresso ghiaioso letto di sorgentelungo giuncoso margine di rivoo su spiaggia marinaper danzare lievi carole al fischiettìo del ventoche tuco’ tuoi schiamazzinon turbassi i nostri svaghi. Ed eccoallorche il ventostanco di zufolare invan per noisu dal mare ha succhiato per vendetta nebbie malignee queste poigrondando sul terrenohan così gonfi d’orgoglio i fiumi tuttiinsino al più meschinoch’essi le dighe han rotte. Ed ora invano al giogo piega il boveil suo sudore spreca il bifolcoe infradicia la spiga prima che la sua verde giovinezza metta su barba; vuoti son gli stazzi negl’inondati campie ingrassa il corvo colle carogne del bestiame infetto; sul piazzale dei giochi ingromma il fango; gl’ingegnosi meandrinon calpesticonfusi stan nella verzura incolta.
Braman le genti i lor iemali panni.
Non più allegran la notte inni e carole:
onde Febea (delle maree signora) pallida per lo sdegnol’aria tutta bagnaaffinché d’umori ognuno ammali.
Fra cotali intemperiele stagioni vediam sconvolte: le canute brine cadon nel grembo fresco della rosa porporinae sul calvo e algente capo del vecchio Invernoin beffaè posto un serto fragrante d’odorati fiori estivi.
Primavera ed estateed il fecondo autunnoe il verno iroso hanno mutate le assise loroe le attonite genti non distinguono più l’una dall’altra le stagioninel loro maturare.
E tutti questi guai sono progenie del dissensodell’astio ch’è fra noi:
noi li abbiamo procreati e generati.
OBERONE: Mettivi allor riparo: ciò sta in te.
Perché crucciar vorresti il tuo Oberone?
Altro non chiedose non quel rapito garzoncello per farmene un paggetto.
TITANIA: Mettiti il cuore in pace; tutto il regno delle fate e degli elfi è insufficiente quel giovinetto a riscattar. Sua madre all’ordin mio era votata: spesso ella mi tenne compagnia all’apertonelle fragranti sere indiane; spesso l’ebbi al mio fianco sulle bionde arene di Nettunoguardando i mercanti salpar sui flutti: ridevamo entrambe quando il vento lascivo inturgidire facea la vela come pregno grembo; ed ella (in sen già ricca del mio paggio) imitava col suo passo aggraziato il dondolio di nave sottoventoe veleggiar fingeva sulla terrasostando per raccogliere gingillie poi tornavacome da viaggioricca di mercanzie. Era mortale:
e si morì di questo suo bambinoche per amore suo voglio educaree per suo amore tener meco sempre.
OBERONE: Fin quando vuoi restare in questa selva?
TITANIA: Forse finché Teseo non sia sposato.
Se in buona pace vuoi riddar con noie ti garba vederci tripudiare al lume della lunavieni via; se nostammi lontanoch’io di certo i luoghi eviterò che tu frequenti.
OBERONE: Dammi quel paggioed io verrò con te.
TITANIA: Noper tutto il tuo regno. Viaviafate!
se sto un minuto ancoraci azzuffiamo.
(Escono Titania e il suo Seguito)
OBERONE: Va’va’; ma non potrai dal bosco usciresenza prima scontar la tua protervia.
Appressatifolletto mio gentile.
Tu certo ben ricordi quella volta ch’iosedendo su in vetta a una scoglieraudii sirenaa dorso di delfinoesalar sì soavi melodie che l’aspro mare n’era abbonacciatoe alcune stelle prorompeano folli dalle lor sfereper udir la musica della sirena.
FOLLETTO: Sìrammento.
OBERONE: Allora potei vedere (ma non tu vedesti) volare fra la luna algida e il mondoCupido in armi: l’occhio suo securo mirò a vaga Vestalein trono assisa d’occidua contradae dalla cocca liberò la saetta con tale impeto ch’essa non unma diecimila cuori parve dover trafiggere ad un tratto:
io vidi invece la saetta ignita del giovine Cupido tutta spegnersi nei casti raggi della luna rorida; e via passò l’imperial Vestaleassorta in caste ideescevra d’amore.
Pur vidi ove caduta era la freccia.
Era caduta sopra un fiorellino dell’occidentegià color del latteallor purpureo d’amorosa piaga; viola del pensiero vien chiamato quel fior dalle fanciulle. Vanne in cerca:
te l’ho mostrato un giorno. Il succo suose stilli sovra ciglia addormentatebasta a far delirare od uomo o donna per qual sia creatura l’occhio suo veda al risveglio. Cercami quel fiore; e di ritorno sii prima che a nuoto una lega percorra il leviatano.
FOLLETTO: In quaranta minuti d’una zona cingerò il mondo.
(Esce)
OBERONE: Avuta la violasorprenderò Titania mentre dormee gliene stillerò l’umor sul ciglio:
e qual sia l’animale che le appaia in sul risveglio (sia leoneod orsoo toroo petulante bertuccioneo babbuin molesto) ella dovrà perseguirlo in ispirito d’amore.
E pria ch’io disincanti la sua vista (il che potrò eseguir con altro semplice) sarà costretta a cedermi il suo paggio.
Chi s’appressa? Non visto origlierò.
(Entra DEMETRIOinseguito da ELENA)
DEMETRIO: Io non t’amoperciò non m’inseguire.
Dove sono Lisandro ed Ermia bella?
voglio uccidere luie lei m’uccide.
In questa selvahai dettoson fuggiti; ed eccomi selvaggio in questa selvaperché trovar non posso la mia Ermia.
Lasciamisu; va’ viapiù non seguirmi.
ELENA: Tu m’attiridurissimo adamantema non già ferro attiriché il mio cuore è saldo come acciaro. Tu dismetti il potere d’attrarreed il potere perderò di seguirti.
DEMETRIO: Ti par forse ch’io ti lusinghi con parole dolci?
o non piuttosto è vero chealla sveltati dico che non posso amarti più?
ELENA: Proprio per questo ancor più t’amo. SentiDemetriosono come il tuo spagnolo; più tu mi batti e più ti son devota.
Trattami come il tuo spagnolosprezzamibastonamitrascuramismarriscimisol che tu mi permettaanche se indegnadi venire con te. Di’ se potrei chieder nell’amor tuo luogo più infimo (luogoperaltroda me tanto ambito) che d’essere trattata come un cane.
DEMETRIO: Non tentar troppo l’odio del mio cuore; mi sento venir male se ti vedo.
ELENA: E a me vien male quando non ti vedo.
DEMETRIO: Tu manchi troppo contro il tuo pudorelasciando la città per arrischiarti alla mercé d’un uomo che non t’ama esponendo alle insidie della nottee al mal consiglio d’un luogo deserto il ricco pregio della tua purezza.
ELENA: La tua virtù protegge il mio pudore; non mi fa notte se ti vedo in visonon mi sembra perciò d’andar di notte; né questa selva mi par solitaria in compagnia di te: sei tu il mio mondoe come potrei dir d’essere solase tutto il mondo è qui per contemplarmi?
DEMETRIO: Vo’ correre a celarmi nella macchiate abbandonando in balìa delle fiere.
ELENA: Non v’è fiera crudel quanto tu sei.
Scappa se vuoiché muterà la storia:
Apollo fugge e Dafne gli dà caccia; perseguito è il grifone dalla tortora; la timida cerbiatta anela in corsa per raggiungere il tigre. Ahcorsa vanase viltà insegueed il valore fugge!
DEMETRIO: Non più discorsibasta: vo’ andar via; e se insisti a inseguirminon sperare ch’io non ti faccia oltraggio nella selva.
ELENA: Sìnel tempioin cittànella campagnaoltraggio tu mi fai. OhibòDemetrio!
Tutte noi donne insulti col tuo spregio:
combatter per amore non ci è datocome può far qualunque innamorato; lasciarci vagheggiare ci convienee il corteggiare a noi non istà bene.
(Esce Demetrio)
Vo’ seguirtie l’inferno in ciel mutareavendo morte dalle man tue care.
(Esce Elena)
OBERONE: Va’ninfa: ei non sarà del bosco fuoriche di teschivainvocherà gli ardori.
(Rientra il FOLLETTO)
Hai il fiore? Ben tornatovagabondo.
FOLLETTO: Eccolo qui.
OBERONE: Ti pregodallo a me.
So una proda ove cresce il timo aulentela violetta dal capin che assentee la primula sotto ampie cortine di prunalbomuscose roselline e caprifoglio soave: cullata da melodie di danzala nottata iviin partetrascorre a riposare tra i fior Titania; ed ivi suol gittare il serpe la sua smaltea pellespoglia bastante a fata che ammantar si voglia.
Spremerle sovra i cigli vo’ l’umore della violaad eccitar nel cuore di lei le più incresciose fantasie.
Parte del fiore prendi tue le vie di questa selva esplora: v’è una dama gentilequid’Atenela quale ama un disdegnoso giovine: i cigli ungi di luiquando la dama non sia lungisì che posarvi sopra gli occhi suoi quegli debba al risveglio. Il giovin puoi riconoscere ai panni ateniesi.
Eseguisci in maniera ch’ei palesi per la fanciulla ancor più vivo ardore ch’ella per lui non nutrisse nel cuore.
Bada pure ch’io vogliosenza falloaverti meco pria che canti il gallo.
FOLLETTO: Signore mioa dubitar non state:
vi son servo e farò quel che ordinate.
(Escono)
SCENA SECONDA – Altra parte del bosco
(Entra TITANIA col suo Seguito)
TITANIA: Prestoun canto fatato ed un rondello; poiper la terza parte d’un minutoviaad uccidere i bruchi nei boccioli della rosa muscosa; o a battagliare coi pipistrelliper bottini d’ali nella cui pelle foggerem farsetti agli elfi piccolini; od a scacciare il gufo clamoroso chenel buiourla stupito a’ miei elfi leggiadri.
Cantate ora per farmi addormentare; indi all’operaintanto ch’io riposo.
(Le FATE cantano)
PRIMA FATA: Voipezzati bracchiorbettivoitritonivoispinosiqui malizia non v’allettinon vogliate esser noiosi.
CORO: Filomenaqui suvviacon noi cantain melodia:
ninna-nannaninna-nanna; ninna-nannaninna-nanna; sia maliasia magiada Titania lunge stia.
Buona nottein melodia.
PRIMA FATA: Ragnivoi non v’appressate; viagambuti filatori; scarabeivoi mal non fate; lumachelle e bruchifuori!
CORO: Filomenaqui suvviacon noi cantain melodia; ninna-nannaninna-nanna; ninna-nannaninna-nanna; sia malia sia magiada Titania lunge stia.
Buona nottein melodia.
(Titania s’addormenta)
SECONDA FATA: Tutto è tranquillovenite via!
Una di guardia da lunge stia.
(Le Fate escono)
(Entra OBERONE)
OBERONE (spremendo il fiore sui cigli di Titania):
Nel destarti qual vedrai per tuo vago prenderai; e per quello languirai.
Pardoo gattoo lonzaod orsoo cinghial d’irsuto dorsoper teappena destaaspetto prenderà del tuo diletto:
schiudi gli occhi a vile obbietto.
(Esce)
(Entrano LISANDRO ed ERMIA)
LISANDRO: Ermiasembri mancar dalla stanchezza per tanto errar nel bosco; ed io smarrita per dir veroho la via: se vuoidolcezzadormiamoe aspettiam dal giorno aita.
ERMIA: Sìcaro; e un letto va’ per te a cercareché a questa proda il capo vo’ appoggiare.
LISANDRO: Solo un cuscino per noi si richiede; un lettoun cuordue pettied una fede.
ERMIA: Nofatti in làLisandro; per lo stesso riguardo che hai per menon star qui presso.
LISANDRO: Carainterpreta ben la mia innocenza!
Amore intende d’amor l’eloquenza.
Io voglio dir ch’è avvinto al tuo il mio cuore; così che i due son uno nell’amore:
due petti cui incatena una parola fanno due petti ed una fede sola.
Perciò al tuo lato a me concedi un posto:
già non m’accosto di mentire a costo.
ERMIA: Per gli enigmi hai l’ingegno ben disposto.
Sia maledetto orgoglio e scortesiase mai pensai tu dicessi bugia!
Madolce amicoper affetto e onorefatti in là; v’è un riguardo che il pudore vuol tra fanciulla e giovine dabbene.
Sta’ lontanoper orae dormi benegentile amico; né il tuo amor perisca finché tua dolce vita non finisca!
LISANDRO: Amenrispondo a prece sì compita; ed aggiungo: finisca la mia vita prima della mia fede! Ecco il mio letto:
doni a te il sonno un riposo perfetto!
ERMIA: Mezzo di quest’augurio a colui tocchi da cui vien fatto a mee gli chiuda gli occhi!
(S’addormentano entrambi)
(Entra il FOLLETTO)
FOLLETTO: Per la selva ho scorrazzatoma nessuno v’ho trovato sovra cui provar se il fiore può davver destar l’amore.
Buio tacito! chi è questi?
Son d’Atene le sue vesti:
certo è quei che a sdegno tiene (dice il re) dama d’Atene.
Ecco dorme la donzellasu fangosa terraanch’ella.
Lungi sta da chi l’obliada chi uccide cortesia.
(Spremendo il fiore sui cigli di Lisandro)O villano eccot’infiltro dentro gli occhi questo filtro.
Quando tu dischiuda i ciglitosto il sonno ancor ne esigli.
Ed allor sarò lontano; perché vo dal mio sovrano.
(Esce)
(Entranodi corsaDEMETRIO ed ELENA)
ELENA: Carouccidimi purma sosta qui.
DEMETRIO: Ehidicovianon seguirmi così.
ELENA: Nel buio vuoi lasciarmi dunque? ohno!
DEMETRIO: Restaa tuo danno: solo me ne vo.
(Esce)
ELENA: Ho perso il fiato in questa folle caccia!
Più prego e meno par che il prego piaccia.
Ermia feliceovunque si riposiper gli occhi suoi beati e maliosi.
Che splende nel suo sguardo? Non salato pianto: ché il mio più spesso n’è bagnato.
Nonoson brutta quale orsalo sento:
le bestie fo scappar dallo spavento.
Non è quindi a stupir separi a mostroDemetrio fo scappar quando mi mostro.
Che falso specchio lo sguardo stellare d’Ermia poté incitarmi ad emulare?
Ma al suol chi giace? Lisandro? Assopito?
morto? sangue non fanon è ferito.
Lisandrose vivetebuon signore aprite gli occhi.
LISANDRO: (destandosi) Pel tuo dolce amorenel fuoco passerò senza pauraElena eterea! L’arte di natura fa si ch’io vegga il tuo cuor nel tuo petto.
Dov’è Demetrio? Ohcome al nome abbietto di lui si converrebbe di perire per la mia spada!
ELENA: Non dovete dire così; nonoLisandro. Che v’importa s’egli ama la vostra Ermia? Ancora assorta ell’è nel vostro amor: state contento.
LISANDRO: Contento d’Ermia? No: molto mi pento d’istanti in cui con lei mi son noiato.
Son d’Elenanon d’Ermiainnamorato:
chi può corvo a colomba preferire?
nell’uomo è da ragion retto il desire; e la ragione a voicome più degnafra voi ed Ermia il primo posto assegna.
Quanto cresce matura in sua stagione:
e non anco maturo alla ragione ero fin quiper troppa giovinezza.
Or che son giunto al colmo di saggezzaragione al mio voler diventa ducee verso gli occhi vostri ella m’adduce; ove le storie dell’amore imparo nel libro dell’amor più ricco e raro.
ELENA: Son dunque nata per questa abbiezione?
Provocai forse la vostra irrisione?
Non vi parevao giovinebastare ch’io non potessi aver mainé sperare da Demetrio uno sguardo di dolcezza?
Volete anche schernir la mia pochezza?
Torto mi fate invero (torto e peggio) a vagheggiarmi così per dileggio.
Dio vi protegga! Vi credei signore (lo devo dir) di cortesia maggiore.
Triste è che donna da talun spregiataperciò da un altro venga poi insultata!
(Esce)
LISANDRO: Non ha visto Ermia. RestaErmia a dormire; a me d’intorno omai più non venire!
E poi che per soverchio di dolcezza si forma più incresciosa ripienezzae le eresieuna volta sfatateda chi illuso ne fu vengon più odiateor tumia ripienezzamia eresia da me più che da ogni altro odiata sia!
E faccia del mio spirto ogni potere ch’io d’Elena sia degno cavaliere!
(Esce)
ERMIA (destandosi): Aiutomio Lisandroaiuto!
strappa questo serpe che al petto mi s’aggrappa!
Ahimèsognar così che cosa brutta!
Lisandroguarda come tremo tutta.
Sognai che un serpe il cuore mi rodevae che tu ne ridessi mi pareva.
Lisandro! non c’è più? O vita mia!
M’odi? non suonnon voce? andasti via?
Dove sei? per pietàdimmi se m’odi!
Par che il terrore le mie membra snodi.
Nulla: di certo non sei più con me:
ch’io trovi mortese non trovo te.
(Esce)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA – Il bosco. Titania adagiata a dormire
(Entrano ZEPPABIETTAROCCHELLAFLAUTOCANNELLO e SPARUTO)
ROCCHELLA: Ci siamo tutti?
ZEPPA: Per l’appunto: ed ecco un luogo che par fatto apposta per le nostre prove. Questo spiazzo erboso sarà il palcoscenicoquesto folto di biancospini lo spogliatoioe ora reciteremo proprio come se fossimo davanti al duca.
ROCCHELLA: Piero Zeppa!
ZEPPA: Che diciRocchella mio?
ROCCHELLA: In questa commedia di Piramo e Tisbi ci son cose che non potranno mai piacere. Prima di tuttoPiramo sfodera la spada per ammazzarsi; il che non andrà a genio alle signore. Che ne pensi?
CANNELLO: Maria Vergineche paura matta!
SPARUTO: Mi pare chetutto consideratosi potrebbe fare a meno dell’ammazzamento.
ROCCHELLA: Neanche per idea: ho io un espediente per rimediare ogni cosa. Scrivimi un prologoun prologo per spiegare che le nostre spade non vogliono far male a nessunoe che Piramo non s’ammazza sul serio; poiper un massimo di precauzionedite che ioPiramonon son Piramoma Rocchella tessitore: tanto basterà a evitare gli spaventi.
ZEPPA: Resta inteso: avremo il prologoe sarà in versi d’otto e di sei.
ROCCHELLA: Nomeglio di più sillabefallo in versi d’otto e d’otto.
CANNELLO: E le signore non avranno paura del leone?
SPARUTO: Vi garantisco che ne ho paura anch’io.
ROCCHELLA: Comparipensateci bene: portare un leone (Dio ne guardi!) in mezzo alle signore è cosa tremenda. Non esiste davvero un altro uccello rapace spaventoso come un leone vivo; e bisogna aver prudenza.
CANNELLO: Allora un altro prologo dovrà spiegare che il nostro non è un leone vero.
ROCCHELLA: Anzibisognerà annunziare il nome dell’attoree lasciar vedere un po’ della sua faccia tra la criniera del leone; e lui stesso dovrà parlare attraverso il pelodicendo così (o allo stesso “difetto”): “Signore”oppureSignore belle, vorrei che voiovi preghereiovi supplicherei di non temere, di non tremare: la mia vita risponde della vostra. Se credete che io venga qui a fare il leone per davvero, ahimè della mia vita! No, non sono una bestia simile: sono un uomo come tutti gli altri; e a questo punto lui dica addirittura ii suo nomee spieghi francamente d’essere Bietta Stipettaio.
ZEPPA: Benesi farà così. Ma ci sono altri due impicci: il primo è portare il lume di luna in una stanza; perchésapetePiramo e Tisbi si dan ritrovo al lume di luna.
CANNELLO: Ci sarà la luna la sera della nostra recita?
ROCCHELLA: Un calendarioun calendario! guarda nell’almanacco: cerca la lunacerca la luna.
ZEPPA: Sìquella sera ci sarà.
ROCCHELLA: E allora potrete lasciare aperta una imposta di finestra nella sala dove reciteremo; e il lume di luna entrerà dalla finestra.
ZEPPA: Già; oppure qualcuno potrà venir fuori con un fascio di spine e una lanternae dire che arriva a “sfigurare”o a rappresentarela persona del Lume-di-Luna. Ma poi c’è un altro impiccio: avremo bisogno d’un muro nella salaperché Piramo e Tisbi (come dice la storia) si parlavano attraverso il cretto d’un muro.
CANNELLO: Sarà impossibile tirar dentro un muro. Che ne dici tuRocchella?
ROCCHELLA: Un uomo qualunque potrà rappresentare il Muro: basterà impiastrarlo con un po’ di gesso d’intonacodi marnatanto per far capire ch’è un muro; luipoiterrà i diti così; e attraverso quello spacco Piramo e Tisbi bisbiglieranno fra loro.
ZEPPA: Se si può fare a questo modoè sistemato tutto. Sufiglioli delle vostre mammemettetevi a sederee provate le vostre parti.
Piramoa te: quando avrai finito il tuo discorsoentra in quel boschetto; e così un per unosecondo l’imbeccata.
(Entra il FOLLETTOrestando indietro)
FOLLETTO: Che zoticoni abbiamo a schiamazzare presso la cuna della mia regina?
Si recita? Vo’ far da spettatore; da attorfors’anchese ne veggo il destro.
ZEPPA: Piramoparla. Tisbifatti innanzi.
ROCCHELLA: “Tisbii fiori ‘odiosi’ han grato olezzo”.
ZEPPA: Odorosiodorosi.
ROCCHELLA: “‘d’odori’ han grato olezzo:
cosìcaruccia miacarail tuo fiato.
Ma zittaodo una voce: aspetta un poco e tornar mi vedrai tosto al tuo lato”.
(Esce)
FOLLETTO (a parte): Non recitò qui mai sì strano Piramo!
(Esce)
FLAUTO: Tocca a me di parlare adesso?
ZEPPA: Di sicuroperdincitocca a te; perché lui capisciè andato a “vedere” d’un rumore udito e deve tornare.
FLAUTO: “O Piramoqual giglio nel tuo candor radiosonel tuo color qual rosa di pruno trionfale.
La tua beltà ‘inebrèa’giovincello animoso!
fido al par di cavallo cui lena ognoravale; c’incontreremo al tumul ‘babbione'”.
ZEPPA: “Al tumul babilonio”compare! Ma questo non lo devi dire ora; è la tua risposta a Piramo. Tu dici la tua parte tutta di seguitocoi richiami e ogni cosa. EntraPiramo: hai lasciato passare il tuo richiamo; è “ognora vale”.
FLAUTO: Oh….
“Fido al par di cavallo cui lena ognora vale”.
(Rientrano il FOLLETTO e ROCCHELLAtrasfigurito da una testa asinina)
ROCCHELLA: “Se tale fossiTisbituo sarei”…
ZEPPA: Che mostruosità! Che stranezza! Siamo stregati! Sucompari!
scappiamocompari! aiuto!
(Escono ZeppaBiettaFlautoCannello e Sparuto)
FOLLETTO: Vo’ inseguirvi: con mille giravolte incalzarvi in padulee macchiae fratta; fiamma esser vo’ talordestriero a volteo veltroo verrood orsa mentecatta nitrirgrugnirruggirlatrardar focodestrierverroorsacanfiammaogni poco.
(Esce)
ROCCHELLA: Perché scappano? Dev’essere qualche birberia per farmi paura (Rientra CANNELLO)
CANNELLO: O Rocchellacome sei mutato! che vedo addosso a te?
(Esce)
ROCCHELLA: Che vedi? vedi la tua testa di ciuco malcreatoeh?
(Rientra ZEPPA)
ZEPPA: Benedetto teRocchellabenedetto te! come sei mutato!
(Esce)
ROCCHELLA: Capisco questa birberia. Vogliono farmi fare una figura ciucaimpaurirmi potendo: ma io non mi moverò di qui cascasse il mondo. Mi vo’ mettere a passeggiare in su e in giù cantandoper far sentire che non ho pauraio.
(Canta) “Il merlo negro nell’ammanto dal becco brun-ranciatoil tordoesperto d’ogni cantoil reattin flautato”.
TITANIA (destandosi): Quale angelo mi desta in mezzo ai fiori?
ROCCHELLA (canta): “Lodolapasser filunguelloil grigio cucco uggiosoal cui insistente ritornello non replica lo sposo”; perchédavverochi vorrebbe far prova di ingegno con un uccello così stupido? chi vorrebbe sbugiardare un uccello anche se quello strillasse “cucù” a perdifiato?
TITANIA: O benigno mortalecanta ancora!
L’orecchio mio si bea nelle tue notela tua forma conquide gli occhi mieie il poter de’ tuoi vezzi mi costringe irresistibilmenteal primo sguardoa confessareanzi a giurarche t’amo.
ROCCHELLA: Mi parepadrona miache non ci sia motivo per un fatto simile: ad ogni modoper dire il verola ragione e l’amore oggigiorno vanno di rado assieme. Ed è un peccato che qualche vicino dabbene non dia a cotesti due il modo di fare amicizia. Giàso celiarese mi metto.
TITANIA: Saggio tu sei del pari che avvenente.
ROCCHELLA: Nonon è vero nemmeno questo: ma se mi bastasse il giudizio per uscire da questo boscosaprei benissimo badare al fatto mio.
TITANIA: Da questa selva non bramar d’uscire:
qui resterai qual che sia ‘l tuo desire.
Non comune è il mio grado tra le fate; nella mia pompa è ancella ognor l’estate; ed io t’amo; perciò vieni con me.
Chiamerò gli elfi per badare a te:
perle ti recheranno essi dal maree giacendo sui fiorli udrai cantare; Ed io te sgombrerò di scoria greveper renderti qual spirto aereo lieve.
Fior-di-Pisello! Ragnatelo! Bruscolo! Gran di-Senape!
(Entrano FIOR-DI-PISELLORAGNATELOBRUSCOLOe GRAN-DI-SENAPE)
FIOR-DI-PISELLO: Eccomi!
RAGNATELO: Anch’io.
BRUSCOLO: Anch’io.
GRAN-DI-SENAPE: Anch’io.
TUTTI: Che c’è?
TITANIA: Con questo cavalier garbati siate:
dinanzi a lui in istrada saltellatenella sua vista gai caprioleggiate; d’albicocche e lamponi lui cibatedi fichimoreed uve imporporate; il miele dei pecchioni saccheggiatedi lor cerose zampe torce fatee di lucciole agli occhi le incendiatequando ai suo letto l’amor mio scortate; poi tolte alle farfalle ali iridateil lume della luna sventolate con esse dalle sue ciglia assonnate.
Elfia lui in obbedienza v’inchinate.
FIOR-DI-PISELLO: Salveo mortale!
RAGNATELO: Salve!
BRUSCOLO: Salve!
GRAN-DI-SENAPE: Salve!
ROCCHELLA: Prego caldamente le Vostre Signorie di farmi grazia.
Supplico Vostra Signoria di dirmi il suo nome.
RAGNATELO: Ragnatelo.
ROCCHELLA: Bramo di far meglio conoscenza con voiegregio compar Ragnatelo: se mi taglio un ditomi farò lecito di ricorrere voi. Il vostro nomesignor dabbene? FIOR-DI-PISELLO: Fior-di-Pisello.
ROCCHELLA: Vi prego d’ossequiare per me la signora Bucciavostra madree il signor Baccellovostro padre. Egregio compare Fior-di- Pisellobramo di far meglio conoscenza con voi pure. Il vostro nomeve ne supplicosignore.
GRAN-DI-SENAPE: Gran-di-Senape.
ROCCHELLA: Egregio compare Gran-di-Senapeconosco bene la pazienza vostra: quel vile gigante d’un “Manzo-di-bove” ha divorato molti valentuomini della vostra famiglia: vi garantisco che i vostri parenti mi hanno fatto venire i lucciconi già diverse volte. Bramo di far meglio conoscenza con voiegregio compare Gran di-Senape.
TITANIA: Al mio ricetto scortate il mio amore.
Della luna la vista par velata di pianto; e se tant’èpiange ogni fioremesto per qualche purità oltraggiata.
Zittial mio amor la lingua sia legata.
(Escono)
SCENA SECONDA – Altra parte del bosco
(Entra OBERONE)
OBERONE: Vorrei sapere se Titania è desta; e se maichi le apparve al suo risveglioed ora delirar la fa d’amore.
(Entra il FOLLETTO)
Ecco il mio messo. Di’pazzo follettoche avvien stanotte nel magato bosco?
FOLLETTO: La regina d’un mostro è innamorata.
Presso il ricetto suo sacro e nascosonell’ora del profondo suo riposodi zoticidi goffi artieri un brancogente sol buona a faticare al banco per buscar di che vivere in Atenea far le prove d’un drammaeccoviene che di rappresentare ha preso accordo per le nozze del duca. Il più balordo di quello stupidissimo drappelloil Piramo del drammasul più bello abbandona la scenae in un boschetto si caccia; ov’iocolto il destrogli metto la zucca d’un somaro sulla testa.
Alla sua Tisbe replicare in questa devee vien fuori il balordo attore.
Quali smerghi il furtivo uccellatore spiandoo bige gracchiein largo stuolopel rombo degli spari sorte a volocon rauchi stridiin pazza scorreria si sbandano pel cielo; così viaalla vista di luiogni altro scampa; chi in uno sterpo rotolando inciampa; chi strilla “all’assassino!”e un grido acuto lancia vèr la cittàchiamando aiuto.
Gli spirti avendo dal terror fiaccatizimbello ei son d’oggetti inanimati:
i rovii pruni strappan lor le vesti; a quei il cappellola manica a questi; qualunque oggetto in cui poter far presa di dosso a chi non sa più far difesa.
Io li sospinsi in questo terror pazzolasciando il dolce Piramo allo spiazzo e andò a finir chequando gli occhi aprìTitania d’un somaro s’invaghì.
OBERONE: Quest’è ben più di quanto m’attendevo.
Ma il mio filtrocom’io ti prescrivevonegli occhi di quel giovine hai stillato?
FOLLETTO: Pur questo è fatto: della dama allatoquando il colsidormiva il cavaliere; nel destarsi egli l’ebbe da vedere.
(Entrano ERMIA e DEMETRIO)
OBERONE: Sta’ queto; vediil giovine s’è desto.
FOLLETTO: Quest’è la dama: il giovin non è questo.
DEMETRIO: Perché sdegnar chi tanto amor vi serba?
Nemico acerbo voce oda sì acerba.
ERMIA: Sìm’adiro con te; ma peggio assai dovrei trattartiché tuforsem’hai dato cagione a maledir. Se ucciso hai Lisandro nel sonnoe il piede intriso hai già nel sanguesguazzavi più a fondoe col ferro me pur togli dal mondo.
Fedele al giorno il sol non s’è mostrato come a me il mio Lisandro. Allontanato si sarebbe egli mai da me dormente?
A creder m’indurrei più facilmente che la terra tenace forar da una ad altra parte s’avessee la luna pel suo centro agli antipodi sguisciassee quivi suo fratello spodestasse in sul meriggio. Esser non può che ucciso tu non abbi il mio amor: cotesto viso è d’assassino; così tetro e smorto.
DEMETRIO: D’assassinato è l’effigie che porto; né altra a me convienpoi che il mio cuore trafitto fu dal tuo crudel rigore.
Ma tuassassinaserena e splendente seiqual Venere in sua sfera lucente.
ERMIA: Che c’entra con Lisandro? dov’è mai?
Oh buon Demetriodi’me lo darai?
DEMETRIO: Il suo carcame vorrei dare ai cani.
ERMIA: Viaviacane randagio! tu mi strani alla donnesca pazienza. L’hai ucciso dunque? Più non conterai d’ora innanzi fra gli uomini! Il veroahdimmidimmi una voltain carità!
Avresti osato di guardarlo in viso quand’era sveglio? l’hai tu dunque ucciso nel sonno? Che prodezza! Di’un serpenteun angue non potea far similmente?
L’uccise un angue; né alcun angue v’è più velenoso (o aspide!) di te.
DEMETRIO: Furor tu spendi in uno sdegno vano:
è pura d’uman sangue la mia mano; e a quel che soLisandro non è morto.
ERMIA: Di’ che sta beneallor: dammi conforto.
DEMETRIO: Se maiche premio mi daresti tu?
ERMIA: Un privilegio: non vedermi più.
Vado; la tua presenza non sopporto:
stammi lontanoch’ei sia vivo o morto.
(Esce)
DEMETRIO: Vano è seguirla mentr’è d’ira in foco:
meglio ch’io sosti qui per alcun poco.
Aggrava del dolore ogni tormento l’insolenza del sonno in fallimento; ma qualche acconto questi potrà darese la profferta sua qui vo’ aspettare. (Si corica e s’addormenta)
OBERONE: Che fai? d’un fido amante le pupille tu m’hai bagnato con magiche stille:
e pel tuo sbaglio l’amante sinceronon già l’infidomuterà pensiero.
FOLLETTO: E’ destin chese un uomo serba fede un milione ve n’è che ognor la ledepassando d’uno ad altro giuramento.
OBERONE: Trascorri il bosco più ratto del ventoElena a rintracciardama d’Atene.
D’amor malata ell’èsmorta diviene pei sospiri che smungon le sue vene.
Con arte qui la riconducie intanto rinnoverò sul giovine l’incanto.
FOLLETTO: Vovo; guardatevo: mai sì veloce tartara freccia scattò dalla noce.
(Esce)
OBERONE (Spremendo il fiore sui cigli di Demetrio):
Tucui tinse di rossore di Cupido il dardoo fioreopra sì col tuo liquore che la damaal traditorepaia cinta di folgore come l’astro dell’amore.
Seridesto dal soporeei la veggasia ‘l favore di lei balsamo al suo cuore.
(Rientra il FOLLETTO)
FOLLETTO: Capitan di nostre schierev’è qui Elenaed il sere che ho magato per errore e che il merto vuol d’amore.
Ne vedremo i lazzi insani?
Ohche stolti son gli umani!
OBERONE: Questo chiasso (fatti in là) or Demetrio desterà.
FOLLETTO: Due saranno a vagheggiare; ohche spasso singolare!
Più mi garban certi tratti se dovuti a strani fatti.
(Rientrano ELENA e LISANDRO)
LISANDRO: Perché uno scherno l’amor mio tu credi?
Scherno e irrision non fanno lagrimare:
se ti parlo d’amor piangolo vedi; e in detti così nati il vero appare.
Come l’amor può sembrarti disdegnose del veroper provaporta il segno?
ELENA: La tua malizia mostri sempre più.
Ver contro verooh pia guerra e profana!
Votato ad Ermiala ripudi tu?
Pesar giuro con giuro è cosa vana.
I giuri tuoi per leiper me (in bilance) peseran pari e lievi come ciance.
LISANDRO: Fui stolto ad Ermia rivolgendo i preghi.
ELENA: Sei stoltoa parer miose la rinneghi.
LISANDRO: Demetrio l’amae non ama più te.
DEMETRIO (destandosi): Elenao tu perfetta ninfadia!
Che dir degli occhi tuoidolcezza mia?
E’ torbido il cristallo al paragone.
Ohdi vermiglie labbra tentazioneohciliege da baci! Raggelato candore in cima al Tauroventilato dai soffi d’Eurole più pure nevi son pari a corvo se la man tu levi.
Ch’io bacidehquesto candor sovranoch’è sigillo di gaudio sovrumano!
ELENA: Che tormento crudele! che rovello!
Tutti volete far di me zimbello.
Se conosceste garbo e cortesianon mi fareste tale villania.
Non vi basta ch’io sappia che mi odiatema occorre che a beffarmi v’accordiate?
Se umani fostenon sol nell’aspettodi frale donna avreste più rispetto.
Lodare i vezzi mieigiurarmi amorementre per me nutrite l’odio in cuore!
Rivali siete voi quand’Ermia amate; rivali siete or ch’Elena beffate.
Virile impresavanto singolarecol vostro scherno indurre a lagrimare una meschina! Niun che sia cortese recherebbe a fanciulla tali offesefacendo strazio della sua mitezzae ciò solo di spasso per vaghezza.
LISANDRO: O Demetrionon essere indiscreto; ami Ermia; e sai che ciò non m’è segreto:
pur volentieridi cuoreti cedo il mio diritto all’amor suo; né chiedo se non che tu voglia lasciarmi in sorte Elena che amerò fino alla morte.
ELENA: Da beffatori non mai venne il fiato più vanamente di così sprecato.
DEMETRIO: LisandroErmia non curo: tienla tu.
Se pur l’amaiquell’amor non è più.
Il mio cuore da lei venne ospitatoora a casa con Elena è tornato per sempre.
LISANDRO: Elenabada: non è vero.
DEMETRIO: Non calunniare un amore sincero che ignori: ti potrebbe costar cara.
Guarda l’amore tuo; vien la tua cara.
(Rientra ERMIA)
ERMIA: La tenebrosa notte il guardo oscurama acuto fa l’orecchio oltre misuraondeper quanto ne soffra la vistadoppio vantaggio l’udito ne acquista.
Non gli occhi mieiLisandrot’han trovato; gli orecchilor mercéqui m’han guidato.
Perchécrudelmi volesti lasciare?
LISANDRO: Quando incalza l’amorperché sostare?
ERMIA: Lungi da me che amor trarti poteva?
LISANDRO: L’amor che posa a me non concedeva:
Elena bellache le notti infiamma meglio d’occhiute luci e nèi di fiamma.
Che vuoi da me? Non puoi capire questo:
che son fuggito perché ti detesto?
ERMIA: Non pensi quel che dici: non è vero.
ELENA: Eccoha parte anche lei nella congiura!
si sono messi in treben me n’avvedoper tramar questa beffa a mio dispetto.
insolente fanciulla! amica ingrata!
hai cospirato insieme con costoro per tribolarmi con sì turpe scherno?
le nostre confidenzele promesse d’amor fraternol’ore insieme scorse quandoal pensiero della dipartitaci crucciavam col piè veloce tempoohtuttotutto hai tu posto in oblìo?
Persin l’affetto degli anni di scuoladell’infanzia innocente? Ermiatu ed iocome due dive industriabbiamo insieme trapunto un fiore da un modello solosedute sul medesimo cuscinocantando in egual tono una canzonecome se mani e fianchi e voci e idee avessimo confuse. Insiem crescemmo come ciliegia duplicedivisa solo in sembianzagemina unità; come due tonde bacche su uno stelo:
con due corpi apparenti ed un sol cuore:
pari a due emblemi araldiciaccoppiati per nozze sotto un unico cimiero.
Perché scindere vuoi l’antico affetto per derider con uomini un’amica?
A bontà ciò disdicee al tuo candore:
tutto il mio sesso se ne può crucciare; sebben l’ingiuria ferisca me sola.
ERMIA: Sono stupita dalle tue parole.
Io non t’irrido: par che tu m’irrida.
ELENA: Non hai tu stimolato il tuo Lisandro a vagheggiarmi per celialodare i miei sguardi e ‘l mio viso? non hai indotto l’altro tuo innamorato (quel Demetrio che pur ora col piè mi respingeva!) a chiamare me divae ninfararapreziosacelestiale? Perché mai egli dice cosìse mi detesta?
E Lisandro perché nega l’affetto per te (così fervente nel suo cuore)perché m’offre (ohsul serio!) devozionese non per tuo volercol tuo consenso?
Che fa se in grazia al par di te non sononon come te vagheggiata e felicema afflitta da un amor senza speranza?
Compiangermi dovresti e non spregiarmi.
ERMIA: Io non intendo ciò che tu vuoi dire.
ELENA: Ma sì! continuadatti un’aria afflitta; fammi boccacce se volto le spallee ammiccate fra voi; fatela lunga; sì vaga beffa passerà alla storia.
Se pietàgentilezza aveste o garbonon fareste così di me ludibrio.
Ma addio: ciò forsein parteè colpa mia; cui presto ammendi lontananzao morte.
LISANDRO: Restao diletta; ascolta le mie scuseamor miovita miaElena bella!
ELENA: Stupenda questa!
ERMIA: Caronon beffarla.
DEMETRIO: S’ella non sa pregarposs’io costringere.
LISANDRO: Più costringer non sai ch’ella pregare:
le tue minacce sono inette al pari de’ suoi deboli preghi. Elenat’amo; per la mia vita lo giuro; e per essache a te vorrei sacrificaregiuro di smentire chi neghi l’amor mio.
DEMETRIO: Dico che t’amo oltre ogni suo potere.
LISANDRO: Or dunquevieni meco a darne prova.
DEMETRIO: Prestosu!
ERMIA: Che vuol dir questoLisandro?
LISANDRO: IndietroEtiope!
ERMIA: Nono: costui vuole…
DEMETRIO: Sudibattiti! smania per far mostra di volermi inseguir; ma non venire:
un uomo mansueto sei tuva’!
LISANDRO: Scansatigattalappa! va’insettolasciamio via ti scaglio come serpe!
ERMIA: Perché sei divenuto sì scortese?
Che mutamento è questodolce amore?
LISANDRO: L’amore tuo? via tartara bronzina!
Viaviamedicamento nauseoso!
Beveraggio aborritovia di qua!
ERMIA: Tu scherzi!
ELENA: Certo; come fai tu pure.
LISANDRO: Demetriomanterrò la mia parola.
DEMETRIO: Vorrei ti vincolassi a me; ben vedo che a trattenerti basta un laccio tenue:
della parola tua più non mi fido.
LISANDRO: Vuoi tu ch’io la maltrattila percuotala stenda morta? L’odio; ma non voglio farle male a tal segno.
ERMIA: Esser vi può mal più grande per me dell’odio tuo?
M’odii? e per qual motivo? Ahimèche dici?
Ermia non sono? E tu non sei Lisandro?
Ancor son bella com’ero pur dianzi.
Stanotte tu mi amavi; eppur stanotte tu m’hai lasciata sola: ebbenedimmi debbo credere dunque (il ciel non voglia!) che tu proprio intendessi abbandonarmi?
LISANDRO: Sìper la vita mia; e non volevo vederti più. Ogni speranzao inchiestao dubbio sbandir puoi: nulla è più verostanne sicura; non è già una celia ch’io ti detestoed amo Elena ormai.
ERMIA: Ahingannatrice! bruco rodi-fiore!
ladra d’affetto! sei venuta al buiodunquea rapirmi il cuor dell’amor mio?
ELENA: Bella davvero! non hai tu pudorené virgineo ritegnood ombra alcuna di decenza? Vuoi tudunquestrappare risposte irose alla mia lingua mite?
Ohibòsimulatriceva’bamboccia!
ERMIA: Bamboccia? e perché mai? ohsìcapisco il gioco di costei. Ella a Lisandro ha fatto confrontar la sua statura colla mia; s’è vantata d’esser alta; e con quel personale così grandecon quell’altezzacertol’ha conquiso.
Ti sei innalzata nella stima suaperché son così bassa e nanerella?
Quanto son bassapertica dipinta?
Quanto son bassadi’? Non però tanto da non giunger coll’unghie agli occhi tuoi.
ELENA: Ohsignoriper quanto mi burliateimpedite a costei di farmi male:
non fui mai trista; non so bisticciare; son fanciulla davvero in codardia:
badate che costei non mi percuota.
Forsevedendo ch’è un po’ più bassina di mecredete ch’io le tenga testa.
ERMIA: Più bassa! uditelo ripete ancora.
ELENA: Ermia caracon me non t’inasprire.
Io t’ho sempre voluto tanto beneho sempre custodito i tuoi segretiné mai ti feci torto; se non quandosobillata da amordissi a Demetrio della tua fuga dentro questa selva.
Corse egli in traccia di te; per amore dietro gli tenni. Irato mi respinseminacciando percosse e villanieperfin dicendo di volermi uccidere.
Ed orse in pace tu mi lasci andarericondurrò in Atene il mio dolorené più ti seguirò. Lasciami andare.
Vedi a qual punto son semplicesciocca.
ERMIA: Vattenedunque: chi mai ti trattiene?
ELENA: Lo stolto cuore mioche resta qui. qui.
ERMIA: Qui con Lisandro?
ELENA: Nonocon Demetrio.
LISANDRO: Non può farti alcun maleElena; credi.
DEMETRIO: Neppur se voisignore l’aiutate.
ELENA: Ohnell’ira divien maligna e scaltra!
Era una volpe quando andava a scuola; esebbene piccinaè fiera assai.
ERMIA: “Piccina?” e dài con quel “bassa” e “piccina”!
Perché le permettete di schernirmi?
Le vo’ saltare agli occhi.
LISANDRO: Va’ vianana; imbozzacchita per la centinodia; acinoghianda.
DEMETRIO: Troppo premuroso sei per tale che spregia i tuoi servigi.
Lasciala fare; non parlare d’Elena; non prender le sue parti: se t’attenti a mostrare per lei ombra d’amorela pagherai.
LISANDRO: Non più costei mi tiene; seguimi dunquese ardiscia provare chi fra noi due può aver diritto ad Elena.
DEMETRIO: Seguirti? noti verrò stretto allato.
(Escono Lisandro e Demetrio)
ERMIA: Per voipadrona miatanto subbuglio:
non vi scansate.
ELENA: Di voi non mi fidoné vo’ più vostra mala compagnia.
Voi mani pronte avete per rissareed io lunghe ho le gambe per scappare.
(Esce)
ERMIA: Sono stupitae non so più che dire.
(Esce).
OBERONE: Questo avvien per tua colpa; o prendi abbagliooppure ordisci qualche gherminella.
FOLLETTO: Re dell’ombrevi giuropresi abbaglio.
Non mi diceste voi che conosciuto avrei il giovine a’ panni ateniesi?
Ed era tale l’innocenza miache a un uom d’Atene feci la magia; ma che ne sia seguito tanto chiasso m’allegroché m’è parso un grande spasso.
OBERONE: Cercan gli amanti luogo ove far lotte:
corriBertinoad oscurar la notte; sullo stellato le cortine aduna di nebbiaal pari d’Acheronte bruna e i rivali furenti disvia tusì che non possan ritrovarsi più.
Talora imita Lisandro alla voceindi a Demetrio scaglia ingiuria atroce; talora in guisa di Demetrio irridi; e ciò lontano l’un dall’altro guidisinchécon piè di piombo e glabre alisu lorsimile a morteil sonno cali:
tu spremiallordi Lisandro sugli occhi quest’erbail cui licorsol che li tocchi farà che il guardo lordisincantatosi rivolga a veder nel modo usato.
Nel risveglio d’entrambiogni irrisione parrà sogno ed inane visione; e torneranno ad Atene gli amantiper esser fino a morte ognor costanti.
Mentre quest’incombenza a te commettomi riserbo ottener che il giovinetto indiano la regina a me conceda; allor permetterò che non più leda l’occhio suoper magiacotanto orroree tornerà la pace in ogni cuore.
FOLLETTO: Occorre darci frettao re d’incanti:
i draghi della notteeccohanno infranti i nembie splende il messo dei mattini; dinanzi a cui gli spettri peregrini ai cimiteri affollansi; e i dannati spirtiin crocicchi e flutti sotterratiai verminosi letti fan ritorno:
perché non scruti le lor colpe il giornosfuggon la luce in volontario esiliofigli all’oscurità dal nero ciglio.
OBERONE: Ben altri spirti siamo noi: talora vo a diporto col vago dell’Aurorae al par di guardacaccia frequentare posso le selve insinche il limitare ignito d’oriente s’aprae lume beato indori salse e verdi spume.
Nondimeno suvviadiamoci attorno possiam compiere l’opra innanzi giorno.
(Esce)
FOLLETTO: Or di quaor di làli addurrò di quadi là.
In campagna ed in città son temuto. Spirtova’falli errar di quadi là.
Eccone uno.
(Rientra LISANDRO)
LISANDRO: Fiero Demetrioove sei? parlasu.
FOLLETTO: Son quiribaldoa spada nuda! E tu?
LISANDRO: Eccomi a te.
FOLLETTO: Sopra miglior terreno seguimi.
(Esce Lisandrocome seguendo la voce. Rientra DEMETRIO)
DEMETRIO: OlàLisandro! parla almeno.
Fuggicodardo? T’inselvi? Rispondi!
Dov’è che la tua testa mi nascondi?
FOLLETTO: Tu sbraititucodardoverso gli astriai cespugli minacci tu disastrie poi mi scansi? Vieni viapoltrone; fanciullovien via; con un frustone te le darò: colui si disonora che per te trae la spada.
DEMETRIO: Sei lì ora?
FOLLETTO: Andiamo altrove a misurarci: guida la mia voce ti sia.
(Escono)
(Rientra LISANDRO)
LISANDRO: Fuggee mi sfida; quando ove chiama arrivose n’è ito.
Piede ha costui ben più del mio spedito:
per quanto ad inseguir facessi prestoa fuggire ei fu sempre assai più lesto.
Ravvolto in buio e sassoso camminovo’ sostar. (Si corica) Vienigentile mattino!
Sol che appaia ‘l tuo primo argenteo raggioa Demetrio scontar farò l’oltraggio.
(S’addormenta)
(Rientrano il FOLLETTO e DEMETRIO)
FOLLETTO: Ohohoh! Come mai quel vil non viene?
DEMETRIO: Fermatise n’hai cuore; troppo bene so che tu fuggi innanzi a meche sguisci da un posto all’altroche tu non ardisci mai di sostarné di guardarmi in faccia.
Dove sei?
FOLLETTO: Vieni qua; sulla mia traccia.
DEMETRIO: Mi beffidunque. Tu la pagherai se alla luce del giorno potrò mai vederti in viso. Ma va’. La stanchezza tanto mi spossa che la mia lunghezza m’è forza misurar su freddo letto.
Di rintracciarti all’alba ti prometto.
(Si corica e s’addormenta)
(Rientra ELENA)
ELENA: Notte d’angosciatetra notte e lungat’abbrevia! lucearridi in orientesì ch’io col nuovo giorno in città giungafuggendo chi detesta me dolente:
sonnoche addormi la malinconiatoglimi un po’ dalla mia compagnia.
(Si corica e s’addormenta)
FOLLETTO: Son tre soli? Più saranno.
Due per sorte quattro fanno.
Ecco l’altra in afflizione.
Turba Amore (quel briccone) delle donne la ragione.
(Rientra ERMIA)
ERMIA: Mai tanto stancamai tanto infelicedi guazza intrisadai pruni feritanon mi trascino piùnon più mi lice; indarno la mia brama il piede incita.
Qui vo’ fino all’aurora riposarmi.
Lisandro aiuti il ciels’ei venga all’armi!
(Si corica e s’addormenta)
FOLLETTO: Sul tenace suoloin pace dormi: e il fioreo amadorel’occhio tuo sgombri d’errore.
(Spremendo l’erba sui cigli di Lisandro) Nel destarti possa darti gran piacere rivedere gli occhi del tuo primo amore:
sì che il detto popolare – a ciascun de’ il suo toccare – per te s’abbia ad avverare.
Gilia è per Gianni:
bastan gl’inganni; l’uom de’ aver la sua cavallae finir coi danni.
(Esce)
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA – Il bosco. In distanza gli amanti addormentati
(Entrano TITANIA e ROCCHELLAFIOR-DI-PISELLORAGNATELOBRUSCOLOGRAN-DI-SENAPEcon altri Elfi; ed ultimo OBERONE invisibile)
TITANIA: Vieni: blandirti la gota vezzosa vo’qui a seder sulla proda fioritanel liscio capo issar muschiata rosai lunghi orecchi baciartimia vita.
ROCCHELLA: Dov’è Fior-di-Pisello?
FIOR-DI-PISELLO: Pronto.
ROCCHELLA: Grattatemi la testaFior-di-Pisello. Dov’è il Signor Ragnatelo?
RAGNATELO: Pronto.
ROCCHELLA: Signor Ragnatelodegno signorerecatevi in mano il brando e ammazzatemi un ronzone dai rossi lombiin cima a un cardo; edegno Signoreportatemi la sua borsa di miele. Non vi scalmanate troppo in questa bisognaSignore; edegno signorebadate che la borsa del miele non si schianti; non vorrei che affogaste nel mieleSignore.
Dov’è il Signor Gran-di-Senape?
GRAN-DI-SENAPE: Pronto.
ROCCHELLA: Datemi la manoSignor Gran-di-Senape. Non più riverenzevi pregodegno Signore.
GRAN-DI-SENAPE: Pronto.
ROCCHELLA: Nient’altrodegno Signoreche dare una mano al cavalier Ragnatelo per grattarmi. Devo andar dal barbiereSignore; perché mi pare d’esser straordinariamente peloso nella faccia: e sono asino così delicatochenon appena la barba mi prude mi vien da grattarmi TITANIA: Di’gradiresti musicamia gioia?
ROCCHELLA: Ho un orecchio discreto per la musica: sentiamo un po’ di triangoli e di nacchere.
TITANIA: E di’mia gioiase tu vuoi mangiare.
ROCCHELLA: Di certo un quarterolo di biada: mi gusterebbe masticare della buona avena asciutta. E mi pare d’aver voglia d’un fastello di fieno: il buon fienoil fieno rosoè senza pari.
TITANIA: Per te le noci fresche un elfo ardito cercherà nel bottin dello scoiattolo.
ROCCHELLA: M’andrebbe più a genio qualche manciata di lupini secchi.
Mavi pregobadate che nessuno de’ vostri famigli mi venga a stuzzicare: mi sento addosso una “esposizione” di sonno.
TITANIA: Dormi: ti cingerò colle mie braccia.
Elfiorsùvi sperdete ai quattro venti.
(Escono gli Elfi)
Al caprifoglio soave il convolvolo così lieve s’allacciae così l’edera inanella i rugosi diti all’olmo.
Ohcome t’amo! come ti vagheggio!
(S’addormentano entrambi)
(Entra il FOLLETTO)
OBERONE (facendosi innanzi): BenvenutoBertino. Ve’ che scena?
Impietosisco ormai pel suo delirio.
Del bosco al limitare or or la vidi andar fra l’erbein cerca di soavi pegni d’amor per questo sciocco esosoe mosso a sdegno la garrii: ché cinte ella gli aveva le villose tempie d’un fresco serto d’olezzanti fiori:
e le rugiade che solean sui bocci inturgidir quali iridate perlenegli occhi dei leggiadri fiorelliniapparivano un pianto di vergogna.
Quando l’ebbi schernita a piacer mioe con miti parole ella pregato m’ebbe di compatirlail suo rapito giovinetto le chiesich’ella pronta mi concesseordinando agli elfi suoi d’addurlo nel paese degl’incantial mio ricetto favorito. Ed ora che ottenuto ho il fanciullovo guarire gli occhi di lei dall’odioso male.
TuFolletto gentildal ceffo magico libera il capo allo zerbin d’Atenesì chequando ei si desti al par degli altriin città possan tutti ricovrarsie rammentare i casi di stanotte sol come i fieri travagli d’un sogno.
Ma disincanterò pria la regina.
(Sfiora gli occhi di Titania con un’erba) Sii qual essere solevi; vedi come pria vedevi.
Di Diana il boccio è tale che sul fior d’Amor prevale.
Titania! sorgimia dolce sovrana.
TITANIA: Oberoneahche visione strana!
D’un ciuco ero nel sogno innamorata.
OBERONE: Guarda l’amore tuo.
TITANIA: Ohcom’è andata?
Quanto ora incresce agli occhi miei ‘l suo aspetto!
OBERONE: Silenzio! ViaBertinoquella testa.
Titania miala musica ridesta; e sonno ai cinque tramortisca i sensipiù greve che natura non dispensi.
TITANIA: Musica! in tua magia sia ‘l sonno involto!
FOLLETTO: Guataal risvegliocol tuo sguardo stolto.
OBERONE: Musica! A me la manreginada’e culla il suolo per chi dorme qua.
L’amicizia fra noi tornata è già:
domani notte in gran solennità dal duca danzerem con maestàe augureremo a lui prosperità.
Pei fidi amanti e il ducain festalà il nuzial rito compiersi dovrà.
FOLLETTO: Porgi ascoltore d’incanto:
dell’alauda s’ode il canto.
OBERONE: In silenzio allor profondonoi che a vol cerchiamo il mondoseguirem la notte bruna ratti più d’errante luna.
TITANIA: Vienie dimmi tumio sirementre via dobbian fuggireperché al suolo fui trovata fra mortali addormentata.
(Escono. Squillo di corni)
(Entrano TESEOIPPOLITAEGEO e il Seguito ducale)
TESEO: Vada in cerca un di voi del guardacacciaor che il rito di maggio abbiam compiutoe poi che siamo allo spuntar del giornooda il mio amor de’ miei segugi il grido.
Lànella valle di ponenteandate a sguinzagliarli: e venga il guardacaccia.
(Esce un Valletto)
Vaga reginaandiamo in vetta al monte; a udire l’urlo delle mute e l’eco in musicale confusion congiunti.
IPPOLITA: Ercole e Cadmo vidi un giorno in Creta andar tracciando per un bosco l’orso con segugi di Sparta; e sì gagliardo urlo più non udii: non pur le selvema i cielie le montagneed ogni plaga circostante parean gridare in coro.
Mai più discordo tanto musicale di suoni udiiné sì piacevol rombo.
TESEO: Son di spartano sangue i miei segugi; di gran mascelledi pelame falbo; con orecchi lambenti le rugiadeincurve gambee pendule giogaie pari a quelle dei tori di Tessaglia; lenti a inseguirma consonanti in voce come campanein digradar di tono.
Non mai muta sì armonica rispose al grido incitator del guardacacciané salutata fu mai dagli squilli del corno in Cretain Spagnaod in Tessaglia.
Tu potrainell’udirlagiudicarne.
Mafate piano! che ninfe son queste?
EGEO: Signorcostei che qui dorme è mia figlia; questi è Lisandro; ed è quegli Demetrio; Elena è l’altrafiglia al vecchio Nestore:
ed io stupisco di trovarli insieme.
TESEO: Di certo si levarono all’alborevolendo celebrar Calendimaggio; e udendo della nostra cerimoniaqui convenuti sono in nostro onore.
Ma dimmiEgeonon è pur questo il giorno ch’Ermia dovea risponder di sua scelta?
EGEO: Sìmio signore.
TESEO: Dite ai cacciatori di svegliare costoro a suon di corni.
(Esce un Valletto. Squilli di corno e clamori. LisandroDemetrioElena ed Ermia si destano e s’alzano sorpresi)
Buon giornoamici. Da più mesiormaipassò la festa di San Valentino; s’accoppian ora gli uccelli di bosco?
LISANDRO: Pietàsignore.
TESEO: State suvi prego.
Voi due rivali sieteanzi nemici; calò nel mondo pace sì soaveche l’odioscevro ormai di gelosiapuò dormir fiducioso accanto all’odio?
LISANDRO: Signoreparlo tra la veglia e ‘l sonnoconfuso da stupore: e non ancora so ben dir come qui mi sia venuto:
ma forse (il vero vorrei dirvie adesso mi par di rammentaree nonon sbaglio) venni fin qui con Ermia. Nostro intento era fuggir da Ateneovescampando alla sua legge severapotessimo…
EGEO: Non piùducanon più; tanto vi basti.
Sul capo di costui piombi la legge.
Volevano fuggirfuggirDemetriodefraudare voie me con voi:
voi della moglieme del mio consensodel mio consenso a voi per isposarla.
DEMETRIO: O ducadalla vaga Elena seppi la fuga degli amanti in questa selva; qui venni pieno d’ira ad inseguirlie amorosa mi tenne Elena dietro.
Ma per effetto di non so qual forzabuon duca (certo d’una forza occulta) l’amore mio per Ermia s’è dissolto come nevee mi par la rimembranza di trastullo a me caro nell’infanzia:
ed ora è fede e forza del cuor miodegli occhi miei consolazione e obbiettoElena sola. Ero promesso a leinobile ducapria ch’Ermia vedessi:
ma detestaicome infermoil mio cibo; orcome sanocol nativo gustoquello ricercoquello bramo ed amoe fido a quello resterò per sempre.
TESEO: Ventura fu incontrarvio vaghi amanti:
vo’ udire più in disteso i vostri casi.
RevocoEgeoquanto tu prescrivesti; perché nel tempioal par di noiper semprequeste due coppie si vedran congiunte.
Ed essendo il mattino ormai inoltratola divisata caccia disdiremo.
Alla volta d’Atene or via con noi!
Per tre e per tre sarà lo stesso rito celebrato in gran pompa. VieniIppolita.
(Escono TeseoIppolitaEgeo e il Seguito ducale)
DEMETRIO: Quanto accade par tenue ed indistintocome in distanza nubilosi monti.
ERMIA: A me ogni cosa appare come ad occhio strambo che vegga doppio.
ELENA: Così a me:
e a me Demetrio sembra qual gioiello trovato: miopur non mio.
DEMETRIO: Vi par proprio che noi siam desti? Sembra a me che ancora noi dormiamosogniamo. Non vi pare che il duca or ora fosse qui con noi e c’invitasse a seguirlo?
ERMIA: Sìv’era anche mio padre.
ELENA: E Ippolita.
LISANDRO: Sìil duca c’incitava ad andare seco al tempio.
DEMETRIO: Siam destiallora; andiamo; e per istrada ci narrerem l’un l’altro i sogni avuti.
(Escono)
ROCCHELLA (destandosi): Quando tocca a medatemi una voce e risponderò: il mio prossimo richiamo è “Bellissimo Piramo”. EhPiero Zeppa! Flautoaggiusta-mantici! Cannellocalderaio! Sparuto! Dio degli dèi! fuggiti tuttie io qui a dormire! Ho avuto una mirabile visione. Ho fatto un sogno; tale che non basta il senno umano a spiegare com’era: c’è da fare una figura ciuca a tentar d’interpretare questo sogno. Mi pareva d’essere e mi pareva d’avere – ma sarebbe un buffone chi pretendesse di dire che cosa mi pareva d’avere. Occhio d’uomo non “udì”orecchio d’uomo non “vide”mano d’uomo non “gustò”né lingua “concepì”né cuore “narrò” maiun sogno come il mio. Dirò a Piero Zeppa di scrivere una ballata su questo sogno: ed essa s’intitolerà: “Il sogno di Rocchella”appunto perché sembrerà fare a girar colle rocchelle; ed io la canterò proprio alla fine del nostro drammain presenza del duca: forseperché paia più graziosala canterò dopo la morte di lei.
(Esce)
SCENA SECONDA – La casa di Zeppa in Atene
(Entrano ZEPPAFLAUTOCANNELLO e SPARUTO)
ZEPPA: Avete mandato in cerca del Rocchella? è tornato a casa?
SPARUTO: Nessuno ne sa niente. Di certo dev’essere stregato.
FLAUTO: Se non tornaaddio recita; non avrà più seguitonon vi pare?
ZEPPA: E’ impossibile: in tutta Atene non c’è che lui capace di far da Piramo.
FLAUTO: No davvero; è il più valente fra tutti gli artieri di Atene.
ZEPPA: Sicuroed anche il più bello; e non ha “morale” per la dolcezza della voce.
FLAUTO: Devi dire che non ha “l’eguale”: chi non ha morale è (Dio ci guardi) persona spregevole.
(Entra BIETTA)
BIETTA: Compariil duca esce ora dal tempioe c’è altre due o tre coppie di nobili sposi: se la nostra recita aveva seguitosaremmo diventati tutti uomini di conto.
FLAUTO: Rocchella caro e valente! Ha perso sei diecini il giornovita natural durantesei diecini il giorno non gli potevano sfuggire; m’impicchino se il duca non gli assegnava sei diecini il giornoa sentirlo far da Piramoe lui se li sarebbe meritati: per Piramosei diecini il giornoo nulla.
(Entra ROCCHELLA)
ROCCHELLA: Dove son questi giovanotti? dove sono questi amiconi?
ZEPPA: Rocchella mio! O “avventato” giorno! O momento felice!
ROCCHELLA: Compariho da raccontarvi maravigliema non chiedetemi quali; perchése ve le raccontassinon sarei più un vero ateniese.
Vi riferirò ogni cosaper filo e per segno.
ZEPPA: Di’ suRocchella mio.
ROCCHELLA: Non parliamo di me. Posso dirvi solamente che il duca ha desinato. Mettete insieme le vostre robe; buoni lacci per le barbe; fiocchi nuovi agli scarpini; e presto al palazzo; e una riguardata alla parte; perchéa farla cortail nostro dramma è prescelto. Ad ogni modobadiamo che Tisbi si muti la camicia e che quello che fa da leone non si tagli le unghieper poterle sfoderare come artigli leonini. Eattori carissiminon mangiate né aglioné cipollapoiché dobbiamo esalare un fiato gentile; enon ne dubitosentiremo dire da tutti che la nostra è una gentil commedia. Non più parole; lestiandate!
(Escono)
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA – Il Palazzo di Teseo in Atene
(Entrano TESEOIPPOLITAFILOSTRATOCortigiani e Valletti
IPPOLITA: Strani casiTeseonarran costoro.
TESEO: Più strani che veraci. Non do fede a fole assurdea magici trastulli.
Amanti e pazzi hanno fervida mentefecondo immaginarche concepisce più idee che la ragione non intenda.
L’insensatol’amante ed il poeta son tutti fantasia. L’uno demoni in maggior copia vede che l’Averno immenso non ricinga; ed è il demente.
L’innamoratoch’egli pur delirascorge in un viso egizio la bellezza d’Elena argiva. L’occhio del poetavolgendosi in sublime frenesiamira di terra in cieldi cielo in terra; e al modo che la mente va formando idee di cose ignoteel colla penna le configurae la dimora e ‘l nome conferisce ad un nulla evanescente.
Del forte immaginare è l’artifizio talche se gioia sogniesso un datore di quella gioia tosto concepisce; e di nottea un pensiero di spaventopuò far sì che un cespuglio sembri un orso!
IPPOLITA: Ma questa storia di notturni casidi sentimenti trasmutati a un trattoattesta di non vane visioni; sostanza e corpo assume; benché resti tuttavia sorprendente ed ammiranda.
TESEO: Ecco gli amantipieni di letizia.
(Entrano LISANDRODEMETRIOERMIA ed ELENA)
Gioiaamici soavie giorni vividi d’amor vi seguan sempre!
LISANDRO: Più che noi Scortin le vostre viele mense e il letto!
TESEO: Suvvia; con quali spettacoli o danze consumeremo le tre ore (un lento secolo) tra la cena ed il riposo?
Dov’è l’ordinatore delle feste?
Quali svaghi son pronti? Non v’è dramma per alleviar quest’ora di tormento?
Qui Filostrato venga.
FILOSTRATO: Eccomisire.
TESEO: Che diletti offri tu per questa sera?
Musica? Uno spettacolo? Ingannare potremo il pigro tempo senza spassi?
FILOSTRATO: Ecco un elenco d’allestiti svaghi:
diteciAltezzaqual volete prima.
(Porge un foglio)
TESEO (legge): “La guerra co’ Centauricantata sull’arpa da un eunuco ateniese”.
All’amor mio di già narrato ho il fattoin onore del mio congiunto Alcide.
“Il gran tumulto delle Menadi ebbre che nel loro furor straziano Orfeo”.
Vecchio tema; esso fu rappresentato quando tornai da Tebe vincitore.
“Le nove Muse in pianto per la morte del Saperedefunto in indigenza”.
Una satira è questaaspra e severache non s’addice a nuzial ritrovo.
“Uggiosa e breve scena del bel Piramo e di Tisbi amor suo; tragico spasso”.
Tragico spasso! Uggiosa brevità!
Sarebbe come dir ghiaccio scottantee neve prodigiosa che fiammeggia.
Come trovare accordo in tal discordo?
FILOSTRATO: Siredieci parole è lungo il dramma; ch’io sappianon n’esiste uno più breve; ma di troppo vi son dieci parole; il che lo rende uggioso: in tutto il dramma non v’è parola o attor che paia a posto.
E tragicomio ducaesso è di certo; perché Piramo v’è che vi s’ammazza.
Piansi al veder la prova; ma più lieto pianto non versò mai riso sonoro.
TESEO: Chi son dunqueFilostratogli attori?
FILOSTRATO: Ruvidi artieri ateniesi tuttichealle fatiche del cervello nuovihanno sforzato la memoria incolta con questo drammaper le vostre nozze.
TESEO: Udremo il dramma.
FILOSTRATO: Nomio nobil sire; non è degno di voi: tutto l’ho uditoe non val nullaproprio nulla al mondo; a meno che per voi non sien di spasso l’ansia e gli sforzi di chi l’ha studiatoin vostro onore.
TESEO: Vo’ udir questo dramma:
non è mai da spregiar quant’è compiuto per schietto zelo. Orsùfa’ entrar gli attori:
e voisignore mieprendete posto.
(Esce Filostrato)
IPPOLITA: Veder mi spiace l’imperizia oppressae lo zelo perir nel far servigio.
TESEO: Ma tu ciò non vedraidolcezza mia.
IPPOLITA: Gli attori (udisti) son de’ buoni a nulla.
TESEO: Buon per noi ringraziarli di quel nullae intendere quel ch’essi fraintendono:
la nobil mente nel maldestro zelo osserva l’intenzionenon il merito.
Ovunque andaidi gran dottori vennero a farmi omaggio in meditate frasi; ed io li vidi impallidirtremare troncar i detti a mezzosoffocare per timidezza gli studiati accentialla perfine perder la favellasenz’aver proferito il benvenuto.
Credimicaraper me quel silenzio fu pari ad un salutoe la modestia del pavido rispetto mi fu grata certo non men che la ciarliera lingua d’un eloquenza petulante e ardita.
Secondo mezelo impacciato e amoresenza dir moltosan parlare al cuore.
(Rientra FILOSTRATO)
FILOSTRATO: Se piace a Vostra Graziaè pronto il Prologo.
TESEO: Fa’ che s’appressi. (Squilli di tromba)
(Entra ZEPPA per recitare il Prologo)
ZEPPA: “Se manchiamoè col nostro buon volere.
Di non mancare non ci preme infine.
Se non mostrar le nostre arti sincereecco il principio ver del nostro fine.
Credetequi veniamma per dispetto.
Non giàvolendo compiacere voici demmo briga. Per vostro dilettoqui non siamo. A far scontenti voigli attor son pronti: e dalla loro provaimparerete cosa a voi non nuova”.
TESEO: Costui non bada davvero alla punteggiatura.
LISANDRO: Ha fatto correre il suo prologo come un puledro bizzarro:
non conosce il freno. Se ne può ricavare un buon precettosignor duca: parlar non valea chi non parla ammodo.
IPPOLITA: Davveroha recitato il suo prologo come un bambino suonerebbe il flauto: traendo voci senza norma.
TESEO: Il suo discorso pareva una catena aggrovigliata: nulla di guastoe tutto in iscompiglio. Ma chi viene adesso?
(Entrano PIRAMO e TISBEil MUROil LUME-DI-LUNA e il LEONE)
ZEPPA: “Voidame e cavalierforse stupite; stupite ancorfinché si spieghi il vero.
E’ questi il giovin Piramocapite; e questa bella dama è Tisbiinvero.
Quest’uomdi calce lordoraffigura il Muroil Muro vil che i due divide:
e quei meschini da una sua fessura godon di bisbigliare; al che niun ride.
L’uom con lanternacanrovi in fastelloLume-di-Luna gli ènel cui chiarore darsi convegno di Nino all’avello non stimano gli amanti un disonore.
Sì truce belva (ch’è Lion chiamata) Tisbi fedelgiunta prima in nottatamette in fugaimpauritao spaventata.
Cade a leiin corsail manto: e il Lion vile col muso il lordach’è di sangue intriso.
Ecco Piramo giungealto e gentiledella sua Tisbi trova il manto ucciso:
prodecon lama sanguinaria e fellasi squarcia il sanguinoso e ardente seno:
d’un gelso all’ombra attende la sua bellaquel ferro traggee muor. La storia appieno diran Lume-di-Lunaambo gli amantiLione e Muronel restar qui innanzi”.
TESEO: Vorrei sapere se parlerà anche il Leone.
DEMETRIO: Non sarebbe da stupire: dove parlano tanti asinisarà permesso a un leone di fare altrettanto.
(Escono ZeppaPiramoTisbeLeone e Lume-di-Luna)
MURO: “Nell’intermezzo nostro raffiguro iodi nome Cannelloun certo muro; muro provvisto d’un crettod’un fessotraverso il quale bisbigliano spesso (badate di tenerlo bene a mente) Piramo e Tisbi assai segretamente.
Calceintonaco e pietradan segnale ch’io son proprio quel muro; il vero è tale:
a destra e manca è il crettoove gli amanti dovranno bisbigliare trepidanti”.
TESEO: Sarebbe possibile a un impasto di calce e pelo di parlar meglio?
DEMETRIO: E’ lo spartito più assennato ch’io abbia mai udito ragionaresignor duca.
TESEO: Piramo s’appressa al muro: silenzio!
(Rientra PIRAMO)
PIRAMO: “O tetra notte! O notte d’ombra spessa!
notte presente ognor che il dì non è:
temo che Tisbi oblii la sua promessa!
Oh nottenotte! Ahimèahimèahimè!
E tumuroo leggiadroo dolce muroche sei confine tra suo padre e ‘l mio; muromuroo leggiadro e dolce muromostrami il cretto ove col guardo spio!
(Il Muro porge le dita)
Buon muroGiove in grazia sua ti tenga!
Ma che veggo? non v’è la mia diletta.
Vil muroche ‘l mio ben non mostrivenga tua pietrache m’illusemaledetta!” TESEO: Mi par che il murodotato com’è di sentimentodovrebbe maledire a sua volta.
PIRAMO: Nodavverosignore: “Maledetta”è il richiamo di Tisbi: lei deve entrare in iscena adessoe io la devo adocchiare attraverso il muro. Vedrete che succederà per l’appunto come v’ho detto io. Eccola che viene.
(Rientra TISBE)
TISBE: “Tu gemere odi spesso me tapinamuroche celi l’amor mio così!
Spessocolla mia bocca ciliegina bacio i sassi che pelo e calce unì”.
PIRAMO: “‘Veggo’ una voce: al cretto sull’istantecaso mai s”oda’ di Tisbi l’aspetto.
Tisbi!”.
TISBE: “L’amante mio! Se’ tudi’caro amante?” PIRAMO: “Ma sìla grazia son del tuo diletto qual ‘Limandro’leal mi fe’ la sorte”.
TISBE: “Qual Elena sarò fino alla morte”.
PIRAMO: “Sì fido a ‘Procro”Sciafal’ non fu mai”.
TISBE: “Mequal ‘Sciafalo’ a ‘Procro’fida avrai.
PIRAMO: “Dammi un bacio attraverso il muro vile!” TISBE: “Pietra bacionon già labbro gentile”.
PIRAMO: “Al tumul ‘babbione’ verrai meco?” TISBE: “Per la vita e la mortelà mi reco”.
(Escono Piramo e Tisbe)
MURO: “IoMurofatta ho già la parte mia; ed avendo finitovado via”.
(Esce)
TESEO: Crollato è il muro tra i due vicini.
DEMETRIO: E’ un guaiosignor ducaquando i muri son così protervi da origliare alla chetichella.
IPPOLITA: E’ la filastrocca più stolta che udissi mai.
TESEO: I migliori attori non son che larve; e gl’infimi non son ad essi inferiorise la fantasia vi soccorra.
IPPOLITA: Dovrà dunque mettersi all’opera la fantasia vostranon quella degli attori.
TESEO: Se non abbiamo di loro idea più trista di quella che ne hanno loro stessipotranno anche passare per attori egregi. Ecco venire due nobili animaliun uomo ed un leone.
(Rientrano il LEONE e il LUME-DI-LUNA)
LEONE: “Tenere damecui sgomenta il cuore sconcio sorcio che strisci sul piantitofremertremar qui potreste d’orroreudendo d’un lion truce il ruggito.
Ma son ioBietta stipettaioun vello di lionnon pur madre a lion fello; ahimè per la mia vitase a tenzone qui venissi in persona di lione!” TESEO: E’ una bestia garbata e coscienziosa.
DEMETRIO: Il tipo più adatto per bestia ch’io vedessi maisignor duca.
LISANDRO: Questo leone è una volpe davvero per la prodezza.
TESEO: Di certo; e un’oca per la prudenza.
DEMETRIO: Non direisignor duca: perché la sua prodezza non può trascinare la sua prudenza; e la volpeinvecetrascina l’oca.
TESEO: Son certo che la sua prudenza non può trascinare la sua prodezzacosì come l’oca non può trascinar la volpe. Basta:
rimettiamo la questione alla sua prudenza e ascoltiamo la luna.
LUNA: “Bicorne luna è ‘l mio fanal di corno…”.
DEMETRIO: Costui avrebbe dovuto portar le corna sulla testa.
TESEO: Ma no: non è una luna crescentee le corna si confondono colla circonferenza.
LUNA: “Bicorne luna è ‘l mio fanal di corno e sembrare degg’io l’uom-nella-luna”.
TESEO: Questo sproposito è il più grosso fra quanti ne abbiamo uditi:
bisognava mettere colui nel suo fanal di corno. Come altrimenti può essere l’uom-nella-lona?
DEMETRIO: Non s’arrischia d’entrarci per via della candela; vedeteha già i fumi.
IPPOLITA: Questa luna mi tedia; vorrei mutasse un po’!
TESEO: Il suo fioco lume di ragione dimostrerebbe ch’è in sul calare; e d’altrondeper cortesiae per discrezioneconviene attendere che compia la sua fase.
LISANDRO: Tira avantiluna.
LUNA: Tutto quello che ho da dire è dire che la lanterna è la luna; iol’uom-nella-luna; questo fastello di spineil mio fastello dl spine; e questo caneil mio cane.
DEMETRIO: Però cotesta roba dovrebbe star nella lanterna; perché è roba che sta nella luna. Ma silenzio! ecco Tisbe.
(Rientra TISBE)
TISBE: “Ecco l’avel ‘babbione’. Ov’è il mio caro?”.
LEONE (ruggendo): “Oh!”.
(Tisbe fugge)
DEMETRIO: Bel ruggitoLeone.
TESEO: Bella corsaTisbe.
IPPOLITA: Bel chiaroreLuna. Questa luna splende proprio con grazia.
(Il leone scrolla il manto di Tisbe)
TESEO: Bella scrollataLeone.
(Esce il Leone)
LISANDRO: E il leone è sparito.
DEMETRIO: Ed ecco Piramo.
(Rientra PIRAMO)
PIRAMO: “Grazielunapel raggio solatio; grazielunapel chiaro tuo splendore; mercé il barlume tuo dorato e piogodrò la vista del mio fido amore.
Ferma: oh dispetto!
Ve’ poveretto!
Quale sventura fella Vegg’io davvero?
Esser può vero?
Tu cara! Tu anatrella!
Sul tuo bel manto il sangue è spanto?
Furie fiereaccorrete!
Parchetagliate Filpenerate!
Colpitedistruggete!.
Or muoiomuoioohlasso!”.
(Muore)
DEMETRIO: Non lasso: assopiuttostoessendo rimasto solo.
LISANDRO: Men che assoamico: ora ch’è morto non è più nulla.
TESEO: Coll’aiuto del cerusico potrebbe riaversi ancora e mettersi a far l’asino.
IPPOLITA: Come mai la luna se n’è andata innanzi che Tisbe torni a ritrovar l’amante?
TESEO: Lo ritroverà al lume delle stelle. Eccola; il suo lamento porrà fine al dramma.
(Rientra TISBE)
IPPOLITA: Mi pare ch’ella non dovrebbe sprecare un lungo lamento per un tal Piramo: spero che sia concisa.
DEMETRIO: Un bruscolo basterebbe a far pencolare la bilancia del merito dalla parte di Piramo dalla parte di Tisbe: lui come uomoDio ci guardi; lei come donnaDio ci liberi.
LISANDRO: Tisbecol suo tenero sguardoha già visto l’amico.
DEMETRIO: Ed ora esporrà la sua doglienza cioè…
TISBE: “Tu dormi ancor?
Morto? noamor!
Sorgi parla son io!
Sì muto? Ohlasso!
Moristi? Un sasso dee coprir l’occhio pio.
Labbro di giglionaso vermiglioguance fiorite d’oropiù non sonpiù.
Si gema orsù!
Gli occhi qual porri foro.
Sorelle trevenite a me; nel mio sangue intridete le man di lattepoi che disfatte seriche trame avete.
Non più querele!
Spada fedelearrossa il petto mio.
(Si trafigge)
AmicisiTisbi finì:
addioaddio; addio”.
(Muore)
(Rientrano il LUME-DI-LUNA e il LEONE)
TESEO: Il Lume-di-Luna e il Leone restano in vita per seppellire i morti.
(Rientra il MURO)
DEMETRIO: Sìed anche il Muro.
LEONE: V’assicuro di no; crollato è il muro che separava i padri degli amanti. Ora vi garberebbe di più “vedere” l’epilogoo udire una bergamasca danzata da due attori della compagnia?
TESEO: Omettiamo l’epilogodi grazia; il vostro dramma non vuole scuse. Le scuse son fuor di luogo; perché quando gli attori son morti tuttinon v’è più da censurarne alcuno. Di certose colui che ha scritto queste scene avesse fatto la parte di Piramoappiccandosi colla legaccia dl Tisbeavremmo assistito a una bella tragedia e davvero lo spettacolo è stato ottimo; e rappresentato egregiamente. Ma vediamo la vostra bergamasca: e lasciamo andare l’epilogo.
(Danza)
Ferrea lingua rintocca mezzanotte:
a lettoamanti; è tempo ormai da fate.
Temo che dormiremo domattina per quanto qui stanotte abbiam vegliato.
Dissimular poté la rozza scena dell’ore il tardo incesso. A lettoamici.
Per sette e sette dì dee durar questa solennità con veglie e varia festa.
(Escono) (Entra il FOLLETTO)
FOLLETTO: Il leon rugge bramosova de’ lupi urlando il branco; dopo un giorno faticosoil villano russa stanco.
Il tizzone ormai rosseggiaese mai chi giace in duolo strider oda coccoveggiapensa al funebre lenzuolo.
A quest’oraaperte e sgombre son per tutti i cimiteri fosse e tombee vagan l’ombre del sagrato pei sentieri.
E noi spirti chebramando come un sogno il buioe ‘l cocchio della trivia dea scortando evitiam di Febo l’occhioesultiamo: il topolino non s’attenti qui vicino alla casa consacrataove porto la granata miavenendovi a mondare dalla polve il limitare.
(Entrano OBERONE e TITANIA col loro Seguito)
OBERONE: Fate lume per le stanze ove spengonsi i camini; elfi e fatein lievi danzesalterelli da uccellinivolteggiate; e meco intanto modulate questo canto.
TITANIA: Ripassate la carolas’abbia un trillo ogni parola.
Per le manieccoallacciatecon la grazia delle fatesu cantiamoe questo tetto da noi venga benedetto.
(Canto e danza)
OBERONE: Finché spunti il nuovo giornopel palazzo andremo attorno.
Prima il talamo ducale affrancar vorrem dal malee far sì che prole eletta ivi nasca a’ Dèi diletta.
Le tre coppie s’amin sempre con amor d’uguali tempre.
Non infligga mai Natura alla lor progenitura labbro fessocicatriceturpe segno che infelice render possa uman destino della vita in sul mattino.
Movan gli elfiche sacrata guazza recan dalle prataedi sala in salapace benedicano verace; ché il signor della dimora star securo deve ognora.
Presto andate; non sostate; sull’albore a me tornate.
(Escono OberoneTitania e il loro Seguito)
FOLLETTO: Se quest’ombre v’han noiatodite (e tutto è rimediato) chein un sonno pien di larvetal visione qui v’apparve.
E del tema ozioso e fraleche non più d’un sogno valeniunsignorici riprenda.
Noi faremscusatiammenda:
se scampiamo indegnamente dalla lingua del serpentegiuroda folletto onestoche faremo ammenda presto; o a me dite villania.
Buona nottecompagnia.
M’applauditee merto poi renderà Bertino a voi.
(Esce)
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[accordion title=”Rassegna stampa” id=”rsbc”]
PAOLO RUFFINI
«Shakespeare? Un autore pop
I benpensanti si rassegnino…»
Simone Azzoni
Livornese doc, carisma e comicità irriverente. Cinema (il debutto vent’anni fa con Ovosodo), doppiaggio (Cattivissimo Me 3), tanta televisione (Colorado ed Eccezionale Veramente) e poi teatro con spettacoli cult come Io Doppio, Paolo Ruffini Show e questo «Sogno di una notte di mezza estate» programmato al Teatro Romano dal 26 al 29 luglio firmato da Massimiliano Bruno. Paolo Ruffini è Puck.«È una sorta di spettatore fa e disfa a suo piacimento ma soprattutto rimane a guardare ciò che ha fatto. Ha delle note di malizia e malignità, lo spettatore si può identificare, perché anche noi abbiamo un po’ di cattiveria e siamo spesso spettatori delle trame che andiamo ad imbandire. Lui scatena le situazioni, non ha paura del fallimento anzi ci sguazza».E il monologo finale cos’è allora?«È un richiamo alla leggerezza».E le metafore sparse nel testo riguardano la vita o il teatro?«Lo spettacolo è una bellissima riflessione sul teatro, noi abbiamo cercato di introdurre un’aria gitana, malinconica, un po’ da Circo Barnum. Tutta la compagnia nel bosco, è come se fosse di artisti che non stanno più lavorando. Lo stesso Puck non è un folletto che salta da una parte all’altra, piuttosto anch’egli un essere dei boschi. È protagonista suo malgrado, è un contrasto vivente».Altre immagini, oltre a quella del Circo Barnum?«Il finale de La Signora di Shangai, un incastro di specchi. Il teatro rimanda a se stesso, vivendo il senso di attesa e di inadeguatezza». Siamo lontani dalla linea tracciata da Gioele Dix con la sua versione Zelig?«Qui non c’è quella volontà di divertire. C’è forte l’idea del regista Bruno, colto e pop. Perché Shakespeare stesso è pop con buona pace dei benpensanti».Dal suo osservatorio qual è lo stato dell’arte?«Credo non stia molto bene la creatività comica e la libertà. Nel mio ultimo libro («Telefona quando arrivi» di Sperling & Kupfer) riflettevo su come sono cambiate la l’ironia e la comicità prima e dopo il web: si è tornati indietro». In che senso?«Molte delle trasmissioni storiche degli anni ottanta e novanta oggi non si potrebbero fare per la rivolta delle femministe, degli animalisti, eccetera eccetera. In un paese dove si prende tutto sul serio, troppo sul serio direi, si rischia di non scherzare su niente. Il senso dell’ironia è cambiato. Abbiamo voluto sentirci così importanti da arrivare ad un livellamento generale». Qual è il comico che funziona?«Checco Zalone funziona perché è l’ultimo mito vero. Il pubblico si identifica, non è migliore di nessuno che lo sta guardando. E il mercato si divide tra chi conosce gli youtuber e chi no. Il mercato è frammentato come la comicità. Chi non morirà mai è il clown, il clown bianco quello che subisce e che bacchetta». Ci parli del progetto «Up and down», spettacolo comico con alcuni attori con sindrome di down della compagnia Mayor Von Frinzius. «L’arte deve includere. Chi è il disabile? Il disabile è chi gli dice che lo sono. Loro dimostrano che sono molto più abili di me, sono molto up. Sa cos’hanno di diverso da noi? Un cromosoma in più e che non sono mai tristi».
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