I Braccialetti Rossi in tv e quelli gialli della vita reale
(Articolo di Vera Martinella tratto dal sito http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/15_febbraio_10/braccialetti-rossi-gialli-vita-reale-54e01b90-b10f-11e4-9c01-b887ba5f55e9.shtml del 13 febbraio 2015)
Eleonora, Marina, Matteo e Thomas, adolescenti curati all’Istituto tumori di Milano incontrano 400 ragazzi delle superiori per un’iniziativa di Fondazione Veronesi.
Mentre i Braccialetti Rossi della fiction di successo tornano su Raiuno per la prima puntata della seconda serie, quelli Gialli della realtà raccontano ai loro coetanei sani (in un cinema milanese straordinariamente gremito e attento) cosa significa ritrovarsi davvero a fare i conti con un tumore quando sei adolescente e quali sono i sintomi a cui fare attenzione. Oppure, accanto ai loro medici, spiegano in un convegno l’ospedale che vorrebbero. Tutto ha un filo conduttore: domenica 15 febbraio si celebra la Giornata mondiale contro il cancro infantile, dedicata quest’anno ad aumentare la consapevolezza e l’informazione sulle neoplasie degli adolescenti, di cui non si era mai parlato così tanto e di cui ancora resta molto da sapere.
La fiction che ha rotto il tabù
Al centro di Braccialetti Rossi (che prende spunto e titolo dall’appassionante autobiografia di Albert Espinosa, classe 1973, tra i più noti scrittori, registi, autori di teatro e televisione spagnoli) c’è la storia di un adolescente malato di cancro. La serie tv che ne è stata tratta si è rivelata un trionfo in mezzo mondo e pure in Italia, nonostante affronti (per quanto «in versione delicata») temi tutt’altro che leggeri per la domenica sera sul divano in famiglia: non solo amori e amicizie, ma anche malattie, dolori e anche morte vissuti da un gruppetto di bambini e adolescenti che si conoscono nelle corse d’ospedale. «Braccialetti rossi ha un pregio indubbio: quello di sdoganare un argomento che sembrava impensabile potesse mai finire in prima serata nelle domeniche in famiglia – commentava già l’anno scorso Maura Massimino, direttrice dell’Unità di Pediatria all’Istituto nazionale dei tumori (Int) di Milano -. Di bambini o adolescenti malati di cancro nessuno vuole mai parlare, invece l’attenzione risvegliata da libro e fiction offrono l’occasione di affrontare un problema reale in tutto il mondo: i teenager che si ammalano di cancro finiscono per vagare in una sorta di “terra di nessuno” tra il mondo pediatrico e quello dell’oncologia medica, gli esperti di riferimento scarseggiano e troppo spesso i ragazzi non raggiungono il centro di cura “giusto” o non ottengono le terapie migliori».
Per rivelare come vanno le cose davvero nella realtà, nei giorni scorsi al cinema Anteo di Milano sono saliti su un palco Eleonora, Marina, Matteo e Thomas, quattro giovanissimi pazienti curati per un tumore all’Istituto Tumori milanese. In platea 400 studenti delle scuole superiori invitati all’evento organizzato da Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto di oncologia pediatrica Gold for Kids per il lancio della campagna #FattiVedere, nata per sensibilizzare gli adolescenti in tema di malattie oncologiche e il cui simbolo è un proprio un braccialetto giallo (o nero), che ricorda quello rosso della fiction. Le testimonianze di adolescenti che hanno affrontato e superato un tumore servono a trasmettere ai più giovani l’idea che anche in quell’età è possibile ammalarsi, sebbene fortunatamente sia un evento assai raro (sono meno di mille i nuovi casi ogni anno in Italia). E che se si vuole guarire (in Italia il 70 per cento dei teenager ci riesce) è importante diagnosticare il tumore prima possibile, evitando di perdere tempo se si nota qualcosa che non va, come ad esempio un dolore o un gonfiore che perdurano per settimane, una stanchezza o una perdita di peso immotivate, un neo che ha cambiato forma, colore o dimensione.
Braccialetti Gialli nella vita reale: ex malati di tumore si raccontano ai ragazzi
Thomas ha raccontato del suo tormento prima di arrivare alla diagnosi. Un anno di dolori insopportabili alla schiena e visite a vuoto al Pronto Soccorso, prima che finalmente qualcuno capisse di cosa si trattava: sarcoma di Ewing al coccige e la diagnosi è stata una liberazione, tanto che più della paura ha potuto il sollievo. Thomas considera la diagnosi tra i momenti più belli di tutta la faccenda, almeno sapeva di cosa soffriva e poteva iniziare una cura. Dalle parole di Eleonora, invece, si percepisce un altro tipo di sofferenza legata alla malattia. Aveva 13 anni quando ha scoperto di avere un sarcoma e ha dovuto affrontare nove mesi di cure lunghissime (chemioterapia, intervento, radioterapia), che l’hanno tenuta lontana da scuola per mesi, ma è comunque riuscita a dare l’esame di terza media. A quell’età gli amici sono quasi tutto: «Alcune amiche del cuore mi sono state vicino, passavano i pomeriggi a casa con me quando non potevo uscire e questo mi rendeva molto felice – spiega -. Altri si sono allontanati, ma immagino sia inevitabile. Una persona malata vuole soprattutto comprensione. A me non andava di parlare, mi bastava che mi facessero sentire come gli altri. La cosa più brutta è sentirsi compatiti». Matteo ha affrontato già due volte un medulloblastoma al cervelletto, la prima volta a 12 anni, la seconda a 20, anche per lui la diagnosi è stata quasi un «conforto», perché dava un senso ai mal di testa lancinanti di cui soffriva. Dalla platea gli chiedono dei suoi genitori e lui risponde: «Sono stati più coraggiosi di me, perché essere un genitore di un figlio malato è peggio che avere il tumore in prima persona. E’ più dura per loro. Per questo mentivo a volte, dicendo che stavo bene anche se non era vero: non volevo farli soffrire troppo». Anche quando finisci le terapie e puoi finalmente lasciare l’ospedale non è detto che la strada sia tutta in discesa. Marina racconta della sua difficoltà a tornare nel mondo «normale» e nel rapporto con i coetanei, che per imbarazzo o noncuranza non sanno (e a volte non vogliono) gestire un dialogo con chi è stato malato. Lei però ha superato anche questo perché «voglio godermi la vita al cento per cento. Una volta che sei passato dal tumore, non ti fa più paura niente, scopri di essere il più forte del mondo».
L’ospedale che i ragazzi vorrebbero, tra speranza, musica, sport e amore
Altri ex pazienti sono al centro del convegno “L’ospedale che vorrei”, aperto al pubblico e organizzato a Milano per l’intera giornata di venerdì 13 febbraio da Federazione Italiana Associazioni Genitori Oncoematologia Pediatrica, Associazione Italiana Ematologia Oncologia Pediatrica e SIAMO. «All’età in cui tutto dovrebbe essere innocenza, divertimento e pura gioia di vivere, i bambini e gli adolescenti con il cancro si trovano ad affrontare situazioni difficili e impegnative, dolore e ansia, isolati per lunghi periodi di tempo da compagni e amici – sottolinea Angelo Ricci, Presidente di Fiagop -. Ecco perché in questo convegno vogliamo mettere in luce il bisogno di normalità di ragazzi che affrontano situazioni gravi e complesse. Li abbiamo messi al centro e saranno proprio loro, pazienti ed ex pazienti, insieme ai loro medici, a parlare direttamente dei problemi clinici, dei percorsi diagnostici, delle cure oncologiche, ma soprattutto a raccontarci le loro storie, a parlarci di speranza, musica, sport, amori, a dirci come dovrebbero essere i medici e i reparti e le associazioni che curano gli adolescenti malati». Teenager e giovani adulti, è facile intuirlo, presentano aspetti e bisogni complessi e peculiari, legati all’insorgenza della malattia neoplastica durante una delicata fase di crescita fisica, psicologica e sociale. «Questi pazienti si trovano in una terra di confine, tra l’oncologia pediatrica e l’oncologia dell’adulto, in cui non sono ancora ben definiti i limiti di età per l’accesso ai rispettivi centri di cura e l’arruolamento in protocolli clinici specifici – spiega Andrea Ferrari, oncologo pediatra dell’Int e fondatore di Siamo -. Inoltre le statistiche scientifiche dimostrano chiaramente che gli adolescenti e i giovani adulti ammalati di tumore hanno presentato, negli ultimi anni, un miglioramento della probabilità di guarigione meno significativo rispetto a quello registrato nei bambini e negli adulti. E’ quindi importante sensibilizzare i ragazzi stessi, le istituzioni, i medici e i genitori, perché i ritardi nella diagnosi vengano superati e si creino strutture ad hoc in cui curare al meglio i ragazzi».