La poesia, l’alcol, la morte in un libro che commuove
Uscito da pochi giorni, “Avevo le tasche piene di sogni” di Gabriella Franchini diventa un successo editoriale locale per il modo in cui narra il ricordo del fratello.
(Articolo di Carlo Gregori tratto dal sito http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2014/12/27/news/la-poesia-l-alcol-la-morte-in-un-libro-che-commuove-1.10568004 del 27 dicembre 2014)
L’alcolismo e il suicidio non sono argomenti da best seller. Ogni anno escono centinaia se non migliaia di libri sul “filone della speranza”, spesso autofinanziati, che parlano di esperienze di dolore, malattia e dipendenza e che hanno esito più o meno positivo ma che il pubblico non prende volentieri in considerazione. Per questo è sorprendente pensare che un libro con temi così duri, che in tanti suscitano repulsione, possa far breccia nel cuore di un pubblico e vendere centinaia di copie col solo passaparola in pochi giorni come succede a un libro ben pubblicizzato.
“Avevo le tasche piene di sogni” l’ha pubblicato un editore modenese, Artestampa, e la sua autrice, la modenese Gabriella Franchini, è un’ex modella dipendente di un noto negozio abbigliamento con un notevole talento narrativo: il suo testo non ha avuto alcuna correzione, tagli o aggiustamenti dall’editore; è semplicemente ben scritto. E allora, perché ha tanto fascino la storia di alcolismo di Franco, il fratello maggiore che ha vissuto tanti amori e ha lavorato in tante città d’Italia e che a 51 anni decide di togliersi la vita lanciandosi dai bastioni di Cagliari, lontano da tutti? È vero che Franco incarna bene quello spirito di libertà e di creatività degli anni Settanta che oggi è scomparso, ma la risposta va probabilmente cercata nella capacità di Gabriella di raccontare facendo breccia in un sentimento molto più diffuso di quanto si creda su questi due temi tabù nelle famiglie italiane. Tanti in queste pagine sentono l’eco di tragedie vicine chiuse nel silenzio. Il suo è un racconto onesto, non vuole dipingere un santino. Franco è geniale e acuto ma anche pesante, ingestibile, inaffidabile. Gabriella lo descrive ingaggiando un match di boxe col fratello scomparso. Ogni domanda che gli fa è un pugno che torna indietro carico di altre domande, mai di risposte. È una lotta senza sosta con un’ombra descritta con grande fascino e il necessario contorno della tragedia: l’accorgersi tardi di cosa accade, le decisioni lente e a volte sbagliate, trovarsi di fronte a specialisti incapaci o trasformati in burocrati della medicina.
Perché scrivere un libro così duro e onesto su una tragedia familiare?
«Per me è stata un’autoterapia del dolore. Per lungo tempo mi sono tenuta dentro tutto, non ho raccontato a nessuno per fare sentire a suo agio chi mi stava di fronte. Avevo paura di non essere capace di parlarne, di passare da vittimista. Poi ho deciso di scrivere per tirare fuori questo dolore. Dovevo farlo da sola».
Come ha fatto?
«In realtà, non capivo cosa mi agitava. Avevo tante cose da chiedere a mio fratello, ma non avevo risposte. Ho cercato libri sull’alcolismo e il suicidio ma erano troppo teorici. Avevo bisogno di dialogo, di parlare a tu per tu per cercare di mettere insieme risposte. Non sapevo proprio perché si arriva a questo, anche se ho vissuto da vicino i fatti».
La scrittura è servita?
«Certo. Ci sono riuscita scrivendo ed elaborando un mio pensiero, da sola, che subito non accettavo. In realtà, era un pensiero di rabbia e dolore. Dovevo colmare questo dolore e l’ho fatto, sono persino arrivata a provare rispetto per mio fratello e il suo gesto estremo. Lo fai quando arrivi alla fine di un percorso con conoscenza e affetto. Arrivi a capire che se tutti uniti riuscissimo a fare di più per chi sta male, si può vincere la depressione”.
Perché dietro l’alcolismo c’è la depressione.
«Ma tutto questo non lo capisci mentre lo vivi. Mio fratello era un uomo sensibile, ricco di talento, un autore di poesie bellissime che riporto nel libro, un appassionato di arte, uno che ha speso tutta la sua vita per i più deboli e gli emarginati scegliendo di lavorare nei servizi sociali. Ma era anche uno che soffriva ed è uscito sconfitto dalla vita, nel lavoro, nell’amore. Si è sentito bruciato. Questo lato oscuro del suo carattere era frutto della depressione. Ma noi familiari non lo vedevano. E’ una malattia della testa tra le più difficili da individuare».
Quanto ha impiegato a scrivere questo libro appassionante? In fondo è una ricerca di un percorso per capire queste cose dopo che sono finite.
«C’è voluto più di un anno per la stesura. Usavo ogni momento libero. Poi c’è stata la fase editoriale. Devo molto a Beppe Cottafavi che ha creduto in questo progetto».
Perché questo improvviso successo?
«Non me l’aspettavo. Dai commenti che sento, penso che molti si ritrovino in questa narrazione. Sentono le stesse emozioni provate da me. È la storia di tanti rimasti ma della quale nessuno parla».