Voglio vivere da “donna normale” La mia battaglia contro l’alcolismo (e la parte peggiore di me)
(Articolo di Violetta Bellocchio tratto dal sito http://27esimaora.corriere.it/articolo/voglio-vivere-da-donna-normalela-mia-battaglia-contro-lalcolismoe-la-parte-peggiore-di-me/ del 17 maggio 2014)
Vedi recensione libro nella pagina “Biblioteca”
Tra Gennaio e Marzo di quest’anno, la cosa che mi sono sentita chiedere più spesso è stata «ma non hai paura?».
A fare la domanda erano quasi sempre persone che frequentavo per lavoro, poco prima che uscisse Il corpo non dimentica. Tutte donne, tutte adulte.
Queste persone sapevano che avevo scritto un nuovo libro, un memoriale, e sapevano che lì dentro parlavo di dipendenza – nello specifico, cercavo di ricostruire alcuni anni “persi” per l’abuso di alcol, la sostanza economica e legale che mi aveva creato i maggiori problemi quando potevo ancora essere considerata una giovane donna. Quindi, stringendo, io avevo scritto un libro su una cosa che mi era capitata e sui modi fallimentari in cui avevo cercato di lasciarmi quella parte di passato alle spalle. Le specifiche – dell’abuso e del recupero – stavano nel libro.
Nessuna l’aveva letto; tutte mi salutavano come se avessi firmato la mia condanna a morte. Alcune aggiungevano, «hai molto coraggio».
Era l’equivalente di una stretta di mano tra ragazze, forse.
Non avevo risposte, nulla di buono, almeno. A chi mi chiedeva «ma sei pronta?», rispondevo «no, affatto». A chi anticipava «ti arriveranno addosso un sacco di cattiverie» rispondevo «…ok, grazie del sostegno?». E alla donna molto vicina a me che chiedeva «ma non potevi fare il libro sotto pseudonimo?», rispondevo «no, no, i libri dove racconti le parti peggiori di te stessa li devi firmare con nome e cognome; lo pseudonimo lo devi usare quando scrivi gli Harmony, i romanzi per ragazzi… I libri normali, hai capito».
Lo stesso, tacevo sull’elemento per me più importante: Il corpo non dimentica era già “un libro normale”, apparteneva a un genere talmente diffuso e radicato in altri paesi da meritarsi l’etichetta kick lit, letteratura della disintossicazione. Non aveva senso scambiarlo per un atto civile. Quello sì che mi metteva paura.
E’ pericoloso, costruire una narrazione intorno al coraggio, perché stabilisce che “il coraggio” è l’unico tratto distintivo positivo di una personalità. E la frase “una donna coraggiosa” può diventare una formula maligna, usata in maniera a volte inconsapevole, a volte lucida e svalutante, per emarginare chiunque prenda decisioni diverse dalla Coraggiosa di turno. Nello specifico, una donna che cerca una soluzione privata a un disturbo della personalità o a una forma di dipendenza non è una vigliacca e non sta facendo nessun disservizio alla popolazione del suo stesso sesso, tanto quanto una donna che fa un piccolo coming out in materia non deve essere presa a modello di niente e nessuno.
Se ripenso alla mia storia personale, essere esposta, negli anni, a un numero crescente di libri, film e telefilm dove la Traumatizzata ma in fondo Coraggiosa protagonista trovava la forza di “affrontare i suoi demoni” e accettare il ricovero nel rehab più vicino mi ha solo spinto a bere di più.
Da ragazza ero un disordine in cerca di un sintomo; non ero giusta per l’anoressia, non ero giusta per l’eroina. Avevo trovato una soluzione economica, legale e disponibile in ogni supermercato d’Italia, dalle otto di mattina fino a tarda notte.
A un certo punto ho smesso. Il come e il quando l’ho tenuto per me.
Da adulta ho deciso che il silenzio non mi andava più bene, e che cercare di vivere come se fossi sempre stata “una donna normale”, sana, intera, stava solo alimentando una forma di fiction personale dannosa per me in prima battuta.
Non esiste coraggio, non esiste la paura; esistono solo persone disponibili a raccogliere i loro pezzi in pubblico, e persone che certe cose preferiscono tenerle per sé.