“Il corpo non dimentica”, i tre anni di buio di Violetta Bellocchio
(Articolo tratto dal sito http://www.tgcom24.mediaset.it/cultura/2014/notizia/-il-corpo-non-dimentica-i-tre-anni-di-buio-di-violetta-bellocchio_2036720.shtml del 01 aprile 2014)
Un mémoire scioccante e intensissimo dalla penna di una delle scrittrici più eccentriche e brillanti della sua generazione.
Violetta Bellocchio ha trentaquattro anni e un buco nella memoria: tre anni cancellati, dai venticinque ai ventotto, perduti in un buco nero da cui emergono all’improvviso dolorosissimi flash. Tre anni da alcolista, da “binge drinker” che ora racconta in “Il corpo non dimentica” (Mondadori, 274 pagine, 17 euro).
Una storia fatta di angoscia, di conoscenze sbagliate, ricoveri in ospedale, bruciature, svenimenti, del terrore di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Una storia iniziata quasi per caso, “come altre cadono nella lotta clandestina, oppure vanno a recitare nei porno con calci e sputi”, una storia che resta tatuata sulla pelle con tutta la sua violenza ma anche con l’assurdo splendore delle esperienze estreme.
Così che, per liberarsene, la sola via è trovare il coraggio di rievocarla, e anche di ammettere tutto il fascino che emana. La dipendenza fa sentire «in ginocchio davanti a qualcosa che non capiamo», a un dio terribile che ha il potere di esaltare e di umiliare.
“È difficile smettere perché è impossibile accettare che niente ci farà sentire mai più così”, “tu non sei una fiamma, sei la fiamma: tu bruci. Tutta quanta te, passata e futura, prende fuoco”. Comincia il lungo cammino della disintossicazione, quando tutti ti dicono che ce l’hai fatta e tu hai paura che basti un passo falso per rimandarti nell’abisso.
Con terrore e pazienza, scheggia dopo scheggia, Violetta Bellocchio ricostruisce se stessa attorno a parole chiave che, come calamite, chiamano intorno a sé immagini e storie; e così facendo dà vita a un libro che è un mémoire coraggioso, di graffiante autoironia, e un documento letterario di straordinaria forza emotiva.
Una lettura in cui la sincerità è tagliente come la lama di un rasoio. Pagine che vibrano di dolore e che ci raccontano come liberarsi da se stessi non sia mai possibile, come ogni catarsi sia un mito pericoloso, come solo la forza di riconoscere il passato apra la porta a un futuro possibile, consapevole, migliore.
Leggi un’anteprima del libro: Lasciar stare Se non mi sbaglio, qui sta per cominciare “la parte dove si costruisce”. Ecco le ceneri, ora lasciamo andare i torti subiti; non recriminiamo su chi ha avuto e chi ha dato, eccetera. Dicono che faccia bene, alla lunga. Io non posso. Ci sono cose che non posso lasciar stare. Non posso lasciar stare che nel Paese dove vivo l’alcolismo sia quello su cui si raccontano barzellette, si disegnano vignette sulla “Settimana enigmistica”. Che una donna ubriaca in pubblico sia considerata esilarante. Ore e ore di intrattenimento gratuito, per chi ha imparato a contare i bicchieri. Sei mesi fa ho visto una donna travestita da Sookie Stackhouse essere portata fuori di peso da una piccola festa di Carnevale. Erano le undici di sera. Le undici meno dieci. Ho visto un amico di lei prendere una decisione esecutiva: qui non può restare, è troppo ubriaca. L’ho guardato mentre la faceva camminare con una mano aperta sulle scapole, mentre la accompagnava fuori dalla porta dell’appartamento, oltre il cortile, la appoggiava sul sedile di un taxi. Dava lui i soldi all’autista. Il mattino dopo ho chiamato il mio amico Luciano, che alla festa era solo passato a salutare ma con Sookie Stackhouse c’era andato in vacanza per cinque anni, e gli ho chiesto se Sookie terminasse regolarmente le serate a un passo dalla barella e dal tubo in gola. Se passasse molto tempo, di recente, in un alveare sociale che la stimolava a fare sempre peggio. Per quanto ne sapeva lui. No, ha detto Luciano. Ieri sera lei aveva saltato la cena, poi aveva mischiato troppi alcolici, e ci aveva fumato sopra. Circostanze eccezionali. Ha aggiunto: «Però non ci vediamo più tanto spesso». «Ok.» «Stili di vita diversi.» «Capisco.» «A te come va?» «Bah. Solite puttanate.» «Sì, anch’io.» Poi forse abbiamo parlato di Batman. Erano giorni in cui cominciavano a funzionarmi gli antidepressivi. Lo stesso. Quella donna ha compiuto trent’anni. Il tipo che ha detto “lei non può restare qui” ha fatto bene. L’ha presa e l’ha rimossa da una situazione che poteva solo peggiorare, e stava peggiorando. Due minuti più tardi, la donna sarebbe caduta dalle scale, sbattendo la testa su tutti i gradini; si sarebbe rialzata e avrebbe ricominciato. Avrebbe vomitato da una finestra credendo di dare meno nell’occhio (io l’ho fatto), avrebbe sfigurato un divano, bianco. Avrebbe trattenuto tanto poco di quello che stava facendo nel suo tempo reale. Sto proiettando, già. Io proietto. Un altro modo di dirlo è che io ci sono passata. Io mi sono svegliata in un appartamento a Niguarda, Milano Nord, la faccia contro il pavimento, realizzando che erano passate quattro ore dall’ultima parola che pote- vo aver cercato di dire. Ho strisciato per terra, ho cercato le mie scarpe. Le luci erano state spente. Ci avevano fatto un podcast, di questa serata. Non ne esistono tracce solo perché un uomo ha sentito tutto, ha telefonato al padrone di casa, ha detto: «Vi siete divertiti, adesso basta. Cancellate la registrazione». Nessuno mi ha portato a casa. E che fosse stata commessa nei miei confronti questa forma rudimentale di pietà io l’ho scoperto solo… cos’era, quattro anni dopo?, perché l’ex moglie di quell’uomo, la ballerina, me l’ha detto. Stavamo camminando sotto i portici a Torino e lei me l’ha detto. Ha detto: «Senti, Marco non è uno che si vanta di certe cose, ma. Ti ricordi quella volta». Avevo lavorato molto per non ricordarla. E sentite questa: la ragione per cui quell’uomo è stato pietoso con me? Le dieci ragazze morte per alcol e roba che aveva conosciuto lui. Ne abbiamo parlato, questa primavera. Dieci. Nomi e numeri. È dura essere grati a dei cadaveri. Questo Paese non ha pietà, con noi, perché questo Paese non accetta la dipendenza come qualcosa che può capitare, e che ha un minimo orizzonte di cura, di miglioramento se non di guarigione. Questo Paese, con noi, non parla. Questo Paese non interviene. Rimuove, rifiuta, ignora. Dice “è una questione complicata”, dice “mica siamo poliziotti”. Questo Paese prende atto della nostra esistenza quando vi chiediamo moneta per strada e vi diciamo “oh devo prendere il treno per disintossicarmi”. Questo Paese dedica incisivi reportage da prima serata all’inferno di questo e di quello. Questo Paese ci racconta da morte; noi siamo la nostra tragedia. Questo Paese ci guarda passare. Alice, la mia altra madre. Vent’anni di bottiglia sulla scrivania, zero interventi. Cosa vuoi, è straniera. O la sorella di B., che non è mai arrivata alla fine. Centrata da una macchina mentre attraversava la statale di notte. Quanto vi facciamo piangere, per trenta secondi. Quante risate vi abbiamo fatto fare.
E sì, lo ammetto, quando la mia amica Claudia ci ha provato, a “intervenire”, io le ho picchiato via le mani con cui cercava di tenermi ferma la testa, ho detto: «Sto bene, sto bene», e me ne sono andata. (Se posso: eravamo in fondo ai Navigli. D’inverno. In un bar. Location, tempismo, tutto a puttane.) Ma almeno lei ci ha provato. Almeno lei, quando sono arrivata alla fine, lei ha detto: «Se ti serve un alibi per la sera quando vai alle riunioni, di’ pure che esci con me».
È difficile, intervenire. È difficile parlare con noi. Quello che mi spezza la testa e la schiena è che voi non ci provate nemmeno. Voi ci guardate.