ADDIO A COSTANTINO FADDA UNA VITA DA FOTOREPORTER
Si è spento ieri, 24 agosto 2013, alle ore 19.45
Il ragazzino sardo «allevato» dagli americani negli anni della guerra mondiale era diventato un fotoreporter di valore assoluto. Nelle sue immagini la storia «nera» della Verona dagli anni Sessanta in poi: i sequestri, i delitti e le piccole tragedie quotidiane. Un incidente lo ha fermato nel suo ultimo servizio.
VERONA. Non ce l’ha fatta Costantino Fadda. Il trauma al capo subito il 16 agosto, mentre con la collega Alessandra Vaccari scendeva le scale sotto il supermercato Mion al Saval per un sopralluogo con la Polizia, non gli ha dato scampo. Era caduto, l’impatto con il cemento era stato devastante. Troppo gravi i danni, anche per un uomo dal fisico che non rivelava l’età: classe 1928. Anni spesi avventurosamente, di cui praticamente l’ultimo mezzo secolo a raccontare come fotoreporter de «L’Arena» il volto oscuro e tragico della città. Sequestri, omicidi, incidenti gravi o meno. Un «palmares» il suo, costellato di abbondanti «scoop», che copre decenni di storia veronese. Immagini, allora rigorosamente in bianco e nero, che vanno dal «caso Maso» all’assassinio dei poliziotti Massimiliano e Davide Turazza e Giuseppe Cimarrusti; dai rapimenti di Garonzi e Comper a quello che fu uno spartiacque degli anni di piombo: la lunga prigionia di James Lee Dozier (a lieto fine) nelle mani delle Brigate Rosse. Lui «Spike» (letteralmente in inglese «chiodo», e ciò già la dice lunga) non mollava mai: era sempre dove c’era la notizia. Ne stava seguendo un’altra, il destino gli ha fatto uno sgambetto beffardo. Uno come lui poteva essere sopreso solo alle spalle, del resto.
IL FOTOGRAFO. Aveva cominciato con gli americani, nell’Italia che veniva liberata. Prima a Livorno, poi a Trieste e VillaOpicina. Lo staff Usa lo aveva iniziato alla foto di boxe: guarda caso, foto di movimento, in cui la prontezza nel cogliere l’attimo fa la differenza tra un’immagine utilizzabile e una sbagliata. Non aveva più smesso di fotografare: la fotocamera (prima Pentax e poi definitivamente Canon anche quando il digitale, accettato a malincuore, era ormai divenuto una necessità) era divenuta la sua compagna inseparabile. Aveva lavorato a «La Notte», al «Corriere Lombardo» e infine a «L’Arena».
Il suo stile, la sua «firma», somiglia per molti aspetti a quello di uno dei grandi della fotografia del XX secolo, Arthur Fellig, meglio noto come Weegee, il reporter che descrisse sangue miserie della New York degli anni Trenta – Quaranta. Immagini illuminate dal flash, crude e dure, la fama di essere uno che arriva sul posto talvolta prima della polizia. «Tino» era così: aveva l’istinto per il «dove» e «quando» esserci. E portava casa, in redazione, lo scatto capace di raccontare. «Il crimine è il mio campo d’affari» è la frase – attribuita – che si portava dietro Weegee. Entro certi limiti valeva anche per «Spike», il quale cinico non era: gli intimi sapevano che certe foto gli avevano fatto male. Ma le aveva scattate comunque perché la notizia, per un giornalista, è un dogma, una religione. Guai, per questo, a dimeticarsi il «credit» su una sua foto: era come togliergli il sangue.
L’UOMO. «Tino – Spike», ovvero un sardo americano. Incrocio non consueto. Costantino era sardo a tutto tondo – inclusa la bandiera regionale sull’auto – e nel senso migliore: leale, duro a volte, orgoglioso, amico fino alla fine. Una sola cosa non perdonava infatti: il tradimento. Era anche un americano: la sua era stata una giovinezza stelle strisce, negli anni della guerra, dei Kennedy fino agli auguri della Casa Bianca abitata Obama orgogliosamente appesi nella sua mostra permanente nella sala capiredattori de «L’Arena». L’America dei sogni e delle contraddizioni, complessa come lui e per questo amata. Motteggiatore salace senza pari, capace di scherzare anche su ciò di cui di solito non si scherza, di mandarti a quel paese e offrire caffè a ripetizione, schietto al limite di ogni convenzione con chiunque, in divisa o in borghese. E questo gli è valso la stima, indiscussa e generale. E il cordoglio che ora non è solo di noi de «L’Arena» ma di una città che ha perso uno dei suoi testimoni.
(Articolo di Paolo Mozzo tratto dal sito del quotidiano “L’Arena di Verona” del 25 Agosto 2013)