( Tratto da “Frate Indovino” Marzo 2013)
Il mito odierno dello “stile di vita” ha cancellato dalla nostra mente la capacità di utilizzare appieno le risorse di cui disponiamo, proponendo come indicatori di importanza sociale l’acquisto incessante ed il continuo spreco, di cui ci vantiamoe che ci premuriamo di esibire. Per riscoprire la sobrietà, bisognerebbe smascherare la vacuità di tante cose che riteniamo essenziali, ma senza le quali potremmo vivere anche meglio. Ogni volta che c’è una novità sul mercato tecnologico, si creano lunghe code di ore e ore, alla ricerca non del necessario, ma del superfluo.
Quando gli studenti, traducendo qualche versione o leggendo Dante, si imbattono negli elogi della sobrietà degli antichi, sbadigliano spaesati come se fossero sbarcati su un altro pianeta.
Molti di loro non sanno neppure il significato di questo termine; quasi tutti noi poi lo fraintendiamo, identificando erroneamente la capacità di limitare le proprie esigenze e di accontentarsi del poco con la miseria, o peggio ancora con la taccagneria.
In nome dello “stile di vita” uno dei più vuoti e insulsi fantasmi, gonfiati dal baraccone della pubblicità e del consumismo, abbiamo cancellato con disgusto ogni pratica ottimizzatrice delle risorse di cui disponiamo. È incredibile, ma se da un lato ci preoccupiamo di differenziare la nostra immondizia, in modo che venga “riciclata”, dall’altro nessuno ci insegna più che il pane raffermo può essere ancora consumato in vari modi, che la frutta ammaccata si può cuocere nei dolci, che il pezzetto di salame o di formaggio e l’insalata appassita possono trasformarsi in una torta rustica, invece di essere buttati.
Sarte, rammendatrici e calzolai sono quasi scomparsi dalla geografia cittadina; quello che si è rotto, si butta e si ricompra, guai a chi perde tempo ad aggiustare. Non parliamo poi degli oggetti tecnologici grandi e piccoli, che alimentano un giro di compravendita paradossale in questo tempo di crisi, specie se comparato alla loro utilità effettiva e concreta nella vita quotidiana.
Dopo tre anni, l’auto passa di moda, perché sono già usciti nuovi modelli, quindi bisogna cambiarla, anche se funziona benissimo: nella nostra testa è diventata vecchia, ed “è frustrante adoperare una cosa vecchia”, danneggia la nostra immagine agli occhi di chi ci frequenta. Non parliamo poi dei cellulari: valanghe di denaro speso per procurarsi il modello “ultimo grido, rottamando quello usato, anche se è seminuovo: comanda la moda, “chi resta indietro è fuori dal giro”.
E poi, ci sono i vestiti, le scarpe, i gadget sportivi, il corredo scolastico fin dalla scuola materna: tutto fatto di materiali sintetici che, quando si strappano, non possono essere ricuciti, rattoppati o incollati di nuovo. Bombardati dalla pubblicità, se non abbiamo i soldi per comprarci gli originali griffati, ripieghiamo sulle imitazioni, affinché, almeno da lontano, sembri ciò che non è: siamo ricchi, nuotiamo nell’abbondanza che ci rende competitivie importanti (apparentemente), possiamo permetterci lo spreco del superfluo.
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